In trentamila in nome di Samb e Diop
Se volete capire perché ieri a Firenze c’è stata “la più grande manifestazione di immigrati mai svolta in Italia” – come dice con le lacrime agli occhi Alessio Gramolati, il segretario della Cgil della Toscana – dovete fissare lo sguardo su una foto. Ritrae una donna bellissima, fiera come le regine africane cantate da Leopold Sedar Senghor, il grande poeta della negritude e presidente del Senagal moderno. È avvolta nell’abito della festa ed è contenta di mandare al suo uomo il ritratto suo e della figlia tredicenne, sono ben vestite e nascondono la tristezza della lontananza con un sorriso, grazie al lavoro del marito che si spacca la schiena in Italia hanno raggiunto un pizzico di benessere. Una donna, una “vedova bianca” (così si chiamavano le mogli dei “pane e cioccolata” italiani lasciate da sole nei loro paesi mentre i mariti lavoravano da schiavi nelle miniere del Belgio o nelle fabbriche della Germania), la moglie di Modon Samb, una delle due vittime uccise martedì scorso nel mercato di Piazza Dalmazia.
“LUI NON LA VEDEVA da dodici anni – racconta un suo amico – l’aveva lasciata quando era incinta. Lavorava tanto perché il suo sogno era di poter ritornare in Senegal e abbracciare finalmente sua figlia. Adesso Modon tornerà nella sua terra, ma da morto. Per lui non ci saranno abbracci, ma solo lacrime”. È l’orgoglio del Senegal, del Marocco, del Sudamerica, quello che sfila dalle tre del pomeriggio fino a sera per le vie di Firenze. Si aspettavano diecimila persone, ne arrivano trentamila. La pelle è nera, olivastra, ma anche bianca. Toscani e fiorentini, tutti insieme venuti nella città di Dante a dare una grande lezione di democrazia, di responsabilità e di civiltà all’Italia intera. È una massa in movimento che ha ormai preso coscienza dei propri diritti. Lavorano nelle imprese della concia nella Toscana dell’industria del lusso, nelle fonderie, nelle fabbriche del vetro, le loro donne assistono anziani soli. Sanno di essere parte del sistema produttivo del Paese, sanno che le tasse che pagano, i contributi che versano all’Inps, gli affitti che onorano, sono parte importante del Pil di questo Paese, e reclamano giustizia e diritti. Non c’è una parola, una sola, di odio nel corteo.
“Ci sentiamo offesi quando, dopo la strage di martedì, ancora sentiamo parlare del gesto di un folle, no, questo è il prodotto di una cultura razzista, xenofoba, fascista”. L’avvocato Aissapou Taull Sall è stata ministro del governo senegalese, oggi è portavoce del Partito socialista, ma è a Firenze soprattutto come legale. “Abbiamo costituito un pool di avvocati per fare una controinchiesta. Chi c’è dietro quel killer, chi lo ha istigato, quali autorità gli hanno concesso un porto d’armi? È un atto di razzismo, per questo chiediamo anche alle autorità europee e mondiali di avviare una inchiesta internazionale”. “Forse – ci racconta Papa, del Senegal pure lui – quelle voci che avevamo sentito nei giorni prima della strage non erano infondate. Un italiano aveva detto ad alcuni nostri fratelli che presto ci avrebbero cacciato con la forza dal mercato”.
CARTELLO IMPOSTO a tutte le telecamere da una ragazza di colore: “La pace non è solo una parola, ma un comportamento civico. Grazie”. Cartello portato da un lavoratore marocchino: “Che c’entra l’Africa con la crisi? ”. Non solo braccia sfilano fino alla piazza di Santa Maria Novella, ma teste, cervelli che ragionano di politica e di diritti, uomini e donne coscienti delle regole e delle leggi del nostro Paese. “Mio figlio è nato qui, io lavoro e pago le tasse qui, ma non possiamo scegliere chi ci rappresenta, siamo italiani senza diritti”, ci dice Sahid, che è venuto da Udine con gli altri fratelli senegalesi. Fratelli e sorelle, si chiamano così tra di loro. E così li chiama Enrico Rossi, il presidente della Toscana. Hanno voluto lui sul palco dopo qualche dissapore, nella fase preparatoria della manifestazione, col sindaco Matteo Renzi. Il primo cittadino, ci dicono, era molto preoccupato per le conseguenze che il corteo avrebbe avuto sul traffico se si fosse spinto troppo verso il centro. I senegalesi non hanno gradito e hanno preferito evitare la sua presenza in piazza. Parla Rossi e lancia un appello al Presidente Napolitano. “Signor Presidente, riconosca ai feriti il diritto di ottenere la cittadinanza italiana e subito. Questo è un atto concreto di riconciliazione con una comunità così duramente colpita”. Poi ringrazia. “Grazie per averci invitato, grazie per averci aiutato a ritrovare la nostra anima democratica”. È il messaggio che i senegalesi aspettavano, il riconoscimento di essere parte di una comunità. Molto resta ancora da fare e lo dicono gli altri politici presenti (Bersani, Rosi Bindi, Vendola, Landini, Rotondi, Ferrero) su cittadinanza e diritto di voto, cancellazione della vergogna dei Cie e chiusura dei siti web che inneggiano al razzismo. La lotta continua e il corteo si scioglie. La foto della moglie e della figlia di Modon Samb viene riposta. Ritrae due donne bellissime e sole. Ora qualcuno dovrà trovare le parole giuste per dire alla più giovane che quel suo papà visto solo in fotografia è stato ucciso nella civilissima Italia perché nero. Negro senza diritti. Da abbattere perché clandestino.(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 18 dicembre 2011)