La battaglia dei giudici di pace
Entrano in protesta i giudici di pace: uno sciopero indetto dall’Unagipa – l’Unione Nazionale dei Giudici di Pace – iniziato il 21 novembre scorso e che si protrarrà fino al 2 dicembre (ovvero la durata massima consentita dal codice di autoregolamentazione) che va a toccare un settore, quello della giustizia, che sta attraversando un momento particolarmente delicato.
“Un’iniziativa – fa sapere il sindacato dei giudici in un comunicato – “contro le estemporanee iniziative e gravi inadempienze dell’ex Ministro Nitto Palma che produrranno danni irreversibili all’erario e all’efficienza della giustizia”. Una protesta che sta registrando un’adesione altissima, in taluni casi di oltre il 90%, segno di un disagio diffuso e condiviso.
Quello dei giudici di pace è un patrimonio importante, in termini di esperienza e forza lavoro, per il nostro sistema giudiziario: questi magistrati – che non sono assunti dallo stato in termini ’impiegatistici’ venendo retribuiti in base al numero delle sentenze prodotte e secondo un contratto rinnovabile al massimo per 12 anni – trattano “il 100% delle espulsioni di clandestini extracomunitari, definite immediatamente, ed oltre il 50% degli affari civili, definiti in meno di un anno, a fronte di oltre 5 anni di durata del processo civile dinanzi ai Tribunali, con costi per l’Erario ben 15 volte inferiori a quelli sostenuti per i giudici di carriera”, spiega il comunicato.
Malgrado l’elevato livello di professionalità e, in taluni casi, la lunga esperienza maturata nel campo da questi giudici, la loro carriera non garantisce alcun tipo di stabilità e continuità temporale, oltre a tutte le altre garanzie di cui godono gli altri dipendenti pubblici.
Abbiamo approfondito la questione con l’avvocato Gabriele Longo, giudice di pace e presidente dell’Unagipa, domandandogli in prima battuta chi è e cosa fa, oggi, un giudice di pace, una figura di cui spesso non si ha un’immagine chiara tra i non addetti ai lavori. “Essendo operativi dal 1995 la cosa mi stupisce un po’. Noi siamo un giudice di primo grado, e se si deve fare una causa sotto i 5.000 euro, si deve per forza venire dal giudice di pace. Se si ha un incidente stradale e la richiesta non supera i 20.000 euro, si deve andare dal giudice di pace. Se si ha una multa che si ritiene essere “ingiusta”, si deve per forza venire da noi”.
Quanti cittadini ogni anno si rivolgono ad un giudice di pace?
Due milioni e mezzo sono i procedimenti nell’ultima statistica del Mnistero della giustizia. Siccome ogni procedimento riguarda due parti, moltiplicando per due si ha la dimensione reale.
Un numero sicuramente ingente. E allora qual è il motivo di questo sciopero?
Scioperiamo perché siamo giudici, e non siamo trattati come tali. Non siamo trattati nemmeno come lavoratori normali. Questa figura, nata con una legge del ’91 entrata poi in vigore nel ’95, si pensava dovesse essere solo un giudice della conciliazione, ’dell’equità’. Il punto è questo: quando si apre un negozio, ed il nostro è il ’negozio della giustizia’ per cosi dire, non si sa mai come viene apprezzato. In questo caso ha avuto molta fortuna. Indipendentemente dalle attese, e forse per disperazione dei cittadini abituati ad aspettare anni ed ai costi notevoli, quando si è costituito questo ufficio di primo grado, parallelo al tribunale che interviene superato un certo importo, ha avuto fortuna: la gente che prima non faceva cause per ’disperazione’, ha invece trovato dal giudice di pace una risposta. Aumentando le competenze però, non era più la nostra un’attività ’dopolavoristica’. Si deve tenere conto che in Inghilterra, dove è nata questa figura, i giudici di pace sono 30.000, e lavorano mezza giornata ogni quindici giorni, ovviamente gratis. Noi invece facciamo due o tre udienze a settimana: in 2300, oggi, abbiamo fatto due milioni e mezzo di procedimenti, quindi più di mille a testa. Il che significa che non possiamo fare altri mestieri, tra cui l’avvocato, che teoricamente potremmo fare. Abbiamo quindi posto all’attenzione questo che è un problema pratico. Noi non abbiamo sistema pensionistico, le nostre colleghe che vanno in maternità non hanno alcuna assistenza. Questi sono due punti fondamentali dello sciopero di questi giorni.
Quali misure richiedete al nuovo Ministro della giustizia Paola Severino?
Noi abbiamo un contratto quadriennale, alla fine del quale siamo valutati dal Consiglio Superiore della Magistratura se rimanere ’in sella’, cosa che non si ha per gli altri giudici. Noi chiediamo che, una volta superata questa valutazione, che non ci siano limiti. La legislazione attuale, che prima prevedeva un massimo di due mandati, ora ne prevede tre. Se però si da alla propria vita professionale una certa impronta, dando la preferenza a questa che è un’attività che ti assorbe abbastanza, non si vede la ragione per cui non si debba essere confermati, se lo si merita. Questo, oltre quello della previdenza, sono i discorsi fondamentali.
Quali conseguenze potrebbe avere uno sciopero come questo sulle pratiche in corso?
Il punto è molto semplice: non siamo noi che abbiamo l’obbligo al di là delle nostre forze, c’è lo Stato. E se lo Stato intende assicurare la giustizia ai cittadini in questo modo anomalo, cioè non pagando…è come se si decidesse di costruire una casa non pagando i muratori adeguatamente. Prima si cerca di far aprire gli occhi a chi dovrebbe assumere queste decisioni, e prima si ha un chiarimento. Questo tipo di trattamento, molto probabilmente alla lunga avrà effetti negativi sulla prestazione.
(pubblicato su www.lindro.it)