Quelli che… il 15 ottobre
Quelli che erano a volto scoperto, come sempre, come a Genova, come a Napoli, come a Seattle. Come davanti agli stabilimenti Fiat di Pomigliano, Flumeri e Termini Imerese. Quelli che a volto scoperto sono stati a L’Aquila a spingere carriole e liberare dalle macerie il centro storico. Quelli che a Roma non erano la maggioranza non violenta del corteo, ma erano il corteo. Questi sono gli indignados, oggi più di ieri. Perché chi scende in piazza forte delle proprie idee, di quelle dei cassintegrati, dei precari della scuola, dei moderni schiavi dei callcenter, dei ricercatori universitari, dei terremotati a vita, dei nuovi poveri, non ha bisogno di coprirsi il volto, porta una bandiera e non una spranga, distribuisce volantini e non lancia sampietrini. Gli altri, i “neri”, quelli che troppo frettolosamente sono stati etichettati come black bloc, erano semplicemente e drammaticamente infiltrati, armati fino al collo, violenti e decisi a trasformare un corteo pacifico e colorato in una carneficina. Non un remake delle tragiche giornate di Genova, ma qualcosa di nuovo e diverso. Così come diverse erano le ragioni politiche della manifestazione e, soprattutto, l’organizzazione della stessa.
I “neri” hanno avuto la strada spianata alle loro azioni perché la fiumana di gente arrivata a Roma da ogni parte di Italia era frutto di uno spontaneismo a doppio taglio. L’appello, rivolto soprattutto ai partiti della sinistra e al sindacato, di non mettere il cappello ad un’indignazione mondiale, ha avuto come conseguenza la non organizzazione di un servizio d’ordine interno alla manifestazione. E’ questo il punto. Sin da Piazza della Repubblica, nastro di partenza del serpentone, folti gruppi di incappucciati hanno potuto tranquillamente sfilare con tanto di mazze e sacchi pieni di pietre tra le mamme e i bambini, i giovani di Rifondazione e di Sel, gli operai della Fiom, gli studenti, gli occupanti del Teatro Valle. Così come sin da Via Cavour, hanno tranquillamente iniziato a distruggere vetrine di banche, supermercati, agenzie di lavoro interinale, e tutto quanto trovavano sul loro cammino. E così ancora, proseguendo verso il Colosseo, l’impressione di camminare di fianco al nemico è diventata certezza. Erano ultrà, in prevalenza con accento romano, che non hanno avuto l’accortezza di nascondere la loro natura. Incendiavano auto e rompevano finestrini con indosso le sciarpe dei loro gruppi di appartenenza, con la mano ferma di chi si sente al sicuro. E infatti lo erano: hanno agito lungo le fasce per tutto il percorso, fino a via Labicana, mentre le forze dell’ordine schierate in fondo alle vie d’accesso ai lati del corteo, stavano a guardare mentre Suv e utilitarie, indistintamente, andavano a fuoco facendo da cornice al cammino di centinaia di migliaia di manifestanti.
Surreale vedere ragazze con il simbolo della pace e i vestiti colorati sfilare al fianco di fascisti che, al grido di “duce duce” e con la mano destra ben tesa verso l’alto, spezzavano il corteo. Li hanno visti tutti, li hanno visti anche gli agenti. Chi avrebbe dovuto fermarli? Gli indignados o le forze dell’ordine? Non è servito a nulla gridargli di andarsene, respingerli, provare a stringere in un cordone improvvisato uno spezzone di corteo per isolarli. No, il loro obiettivo era chiaro: distruggere tutto, arrivare a Piazza San Giovanni e rubarla ai manifestanti. Chiunque provasse a intralciare il loro progetto veniva preso a bastonate e sassate. Ed eccoli lì nella piazza rossa, quella dei concerti del primo maggio, a fare la guerriglia, unendosi ai gruppi storici dell’autonomia italiana e della frangia più estrema degli anarchici, di cui nulla sanno e con cui nulla condividono. E dietro gli indignados: facce terrorizzate di persone non abituate all’intifada nostrana, telefonini impazziti di madri che attaccate alla tv provavano a contattare i figli in piazza, giovani di rifondazione che con le lacrime agli occhi provavano a raggiungere la loro piazza senza riuscirci. Un passo avanti e dieci indietro per salvarsi dalla folla che correva, dagli ultrà indemoniati, dai poliziotti che non hanno risparmiato cariche e manganellate a chi sfilava pacificamente, dai lacrimogeni, da un’asfissiante puzza di bruciato che toglieva il respiro. E ad un orizzonte troppo vicino la colonna di fumo nero della camionetta bruciata, una sorta di cult delle manifestazioni da “oscurare” mediaticamente e politicamente, simbolo di una giornata finita nel peggiore dei modi. Gli indignados più indignati di prima. A Roma è successo un fatto nuovo: il clima di tensione creato ad arte nei giorni precedenti non ha scoraggiato una partecipazione oltre la più rosea delle previsioni di quanti vogliono riprendere in mano le redini di un Paese e di un destino collettivo ormai giunti all’anno zero. Ma qualcuno, i “neri “ e chi gli ha permesso di agire indisturbatamente, lo hanno impedito. Volevano le prime pagine e le hanno avute. Perché tutti tirano le somme, il sindaco Alemanno che chiede i danni e pena certa per i dodici arrestati (basta guardane le foto per capire che non erano né black bloc, né anarcoinsurrezionalisti, né ultras), il movimento, i leader di partito, tutti. Finanche il Ministro Maroni che si congratula con le forze dell’ordine “che hanno evitato il morto”. Si sbaglia, signor Ministro perché un morto c’è stato e ed è il diritto negato a seicentomila cittadini di manifestare liberamente le proprie idee.
(pubblicato su www.lindro.it)