Jatevenne
Si sta parlando tanto, in queste ore, di come è andata a finire la manifestazione tenutasi a Roma. Tutti i telegiornali ci hanno già mostrato le immagini di un epilogo poco equivocabile, di una guerriglia urbana che ha trasformato Piazza S. Giovanni, destinata ad essere l’accampamento di tanti giovani riuniti sotto lo slogan “Yes we camp”, in un campo di battaglia: non vale la pena fare l’ennesima cronaca di questo finale. Non vale nemmeno la pena di commentare chiacchiere sterili e ingenue di politici come Schifani e Gasparri, che parlano di questa manifestazione come un astemio potrebbe parlare di un vino. Io credo che se l’aspetto tragico della giornata sta nella fine, quello più interessante, quello che avrebbe meritato molta più attenzione sta nel principio e nello svolgimento.
Il corteo degli studenti parte dalla Sapienza intorno alle 13. Piazzale Aldo Moro, all’ingresso della città universitaria, è pieno di ragazzi; un gruppo colorato, festosamente rumoroso, guardato a vista da varie auto della Polizia di Roma Capitale e da due auto in borghese con i lampeggianti sul tetto. Siamo veramente in tanti e la sicurezza non è qualcosa su cui lesinare. Il corteo si muove in direzione di piazza dei Cinquecento in totale assenza di simboli di partiti politici; non c’è posto per la politica, del resto, in questa manifestazione dove a farla da padrone è la sfiducia di una generazione che vede troppi punti interrogativi posarsi sul proprio futuro. E si sfoga con slogan che lasciano poco spazio all’interpretazione: “partiti diversi/ricetta uguale/sempre in difesa/del capitale; ma quale Cigl/macchè Rifondazione/lotta dal basso/auto organizzazione”. Non c’è posto, con buona pace di tanti scrivani di certa stampa, per l’antiberlusconismo di nessun livello in mezzo a questi ragazzi che rivendicano il loro netto rifiuto ad una politica che non li rappresenta (più).
E in mezzo a questi ragazzi c’è anche qualcosa che un posto, forse, non dovrebbe averlo. Non ci sono ancora segnali manifesti, ma si intuisce che le intenzioni di qualcuno non sono in linea con lo spirito del corteo. Tra la folla girano caschi appesi alle cinture, dalle tasche sbucano sciarpe e guanti di pelle. Un ragazzo, davanti a noi, nasconde a malapena sotto una giacca di jeans una protezione per la schiena di quelle usate dai motociclisti contro le cadute. Pochissimi in questa folla in marcia, ma non per questo meno stridenti. Tutta gente che avrà lasciato a casa il bauletto dello scooter. Su via del Castro Pretorio un camionista tenta di passare in mezzo al corteo – un percorso, va ricordato cento volte, autorizzato dalla questura – e per risposta riceve un ironico “scendi giù/scendi giù/manifesta pure tu”. Eccole, le vere intenzioni di questo serpentone che si prepara ad arrivare in una piazza dei Cinquecento colma di persone in ogni direzione. Un tappeto umano che copre piazza della Repubblica, lo spazio antistante la Stazione Termini e che inizia a dirigersi verso via Cavour. Qui le mille facce, le mille anime e le mille voci di questa manifestazione si fondono e si rafforzano le une con le altre: una miriade di movimenti riuniti sotto un’unica parola a fare da comune denominatore: indignati. Iniziano a vedersi i primi simboli di partito, qualche bandiera di Sinistra Ecologia e Liberta, spunta un bandierone del Partito Comunista dei Lavoratori. Stop, le sigle finiscono qui. Ci sono i comitati No Tav e No Ponte: l’Italia unita dalle Grandi Opere Inutili si incontra qui. Incrociamo un folto gruppo di pensionati che agitano un cartello eloquente, “Nonni per i nostri ragazzi”. C’è il comitato per l’acqua pubblica, ci sono precari e lavoratori in cassa integrazione venuti da tutta Italia. Ed in un angolo, spunta anche una bandiera islandese, quasi a voler ricordare un paese che dovrebbe diventare un modello per gli Indignati di tutto il mondo.
Lasciata piazza dei Cinquecento per dirigerci su via Cavour, ci si rende effettivamente conto di come il corteo sia stato letteralmente blindato dalle forze dell’ordine. Ad ogni traversa ci sono mezzi ed uomini pronti a bloccare chi volesse passare dall’altra parte. Davanti la Basilica di Santa Maria Maggiore le barricate sono addirittura tre: le prime due formate da automezzi della Polizia e, infondo, spunta un’auto della Polizia locale. Ce n’è abbastanza per sentirsi al sicuro in questo corteo popolato da uomini e donne di tutte le età: c’è persino qualche bambino che si gode lo spettacolo di questa strada invasa dai manifestanti seduto sulle spalle dei propri genitori.
Il sospetto già persistente che qualcosa possa andare storto prende concretezza quando ci passa accanto una vera e propria squadriglia di “incappucciati” nerovestiti dietro la guida di un improbabile “ducetto” che li incita “annamo, annamo, adesso”. Immediatamente vengono fischiati e coperti di epiteti non riferibili dalla folla dei manifestanti. Quando vediamo il fumo nero e denso levarsi dalla strada poco avanti a noi i sospetti ed i timori si tramutano in certezze. Ci accoglie lo spettacolo desolante di una via Cavour devastata. Dalle carcasse ancora in fiamme di una Mercedes e di un suv Audi si leva un odore acre che rende l’aria irrespirabile; i vigili del fuoco accorrono rapidamente accolti da un coro poco rassicurante: “rispettamo solo i pompieri/solo i pompieri/rispettamo solo i pompieri”. Un altro suv bruciato poco più avanti. Non c’è un poliziotto mentre gli incappucciati prendono a sassate le vetrine della Cassa di Risparmio di Rimini, distruggendone il bancomat, riservando lo stesso barbaro trattamento ad un ufficio postale ed a due distributori di benzina, uno dei quali viene letteralmente distrutto. Per non parlare, ma sembrano quasi carezze in confronto a tutto il resto, delle scritte sulle vetrine dei negozi, sui muri, sulla strada. Non hanno vergogna, non hanno paura, non hanno dubbi sulle loro azioni e sul loro modus operandi. C’è stupore tra i manifestanti, c’è rabbia, ci sono tanti perché che rimangono nell’aria come la nebbia rossa dei fumogeni. Mentre su una via Cavour martoriata si aggirano solo alcuni vigili del fuoco.
La polizia, invece, la incontriamo di nuovo arrivando su via dei Fori Imperiali, dove un’imponente barriera di mezzi blocca il cammino in direzione di via Nazionale. Una precauzione nel caso qualcuno voglia dirigersi verso i “palazzi”. Non ci sono forze dell’ordine mentre un altro gruppo di individui ben poco discreti ci passa affianco a passo deciso: casco in testa, occhiali scuri, mani guantate che brandiscono un bastone di metallo. Che tutto ciò accada in un paese dove allo stadio non si può portare nemmeno una bottiglietta d’acqua è quantomeno paradossale.
Accorgendoci di essere arrivati quasi alla testa del corteo che si dirige su via Labicana, oltre il Colosseo, pronta a raggiungere e organizzare il campo in piazza San Giovanni, decidiamo di sederci sul pendio del Palatino e godere della magnifica vista del corteo da li. Sono tanti, tantissimi, che marciano con l’intensità di una processione religiosa ed al contempo con l’allegria di una festa in cui tutti si conoscono da sempre. Come se l’essere tutti li facesse dimenticare almeno per un attimo i problemi che ci hanno portato a uscire di casa questo sabato e scendere in piazza. Sono talmente tanti che sembrano non finire più. Sfilano anche alcune associazioni pro-Palestina, che portano in testa la foto di Vittorio Arrigoni al “grido” di “restiamo umani”. Un simpatico personaggio con in testa un copricapo pieno di corni e campanelli agita un turibolo fumante d’incenso, recitando una sorta di mantra in dialetto napoletano: “jatevenne, jatevenne, Berlusconi lascia questo corpo…”, suscitando l’ilarità degli altri manifestanti. Tante telecamere lo riprendono, peccato che a nessuno dev’essere importato più di tanto di mostrare questo volto della manifestazione.
Improvvisamente un’altra fiammata di fumo denso e scuro si leva in direzione di via Labicana; si intravede qualche fiammata. Solo dopo scopriremo che si tratta dell’edificio dato alle fiamme insieme ad alcune macchine poco prima di piazza San Giovanni, in quello che diventerà di li a poco l’epicentro degli scontri. Sotto di noi il corteo continua a sfilare quando, tra gli slogan dei manifestanti, se ne leva uno che suona decisamente fuori posto. “Fuori gli ultras dalle galere” è il grido di un nutrito gruppo di giovani nerovestiti. La domanda sorge spontanea: cosa ci fanno qui? Sono arrivati a vedere il derby con un giorno di anticipo?
Mentre le volute di fumo nero non accennano a fermarsi, ci incamminiamo anche noi insieme al resto del corteo su via Labicana, convinti che si tratti di un episodio analogo a quello già visto su via Cavour, e sperando che tutto ritorni alla normalità presto. Le nostre aspettative si infrangono davanti ad un blocco di auto delle forze dell’ordine che ci impedisce il passaggio. “Hanno spezzato il corteo” è la voce che si diffonde rapidamente tra i manifestanti increduli. Ma come, non erano stati loro a vagliare e autorizzare il percorso? Le prime spiegazioni ci giungono da quanti, smartphone alla mano, dispongono di un collegamento internet: hanno dato fuoco ad uno stabile del Ministero della Difesa e San Giovanni si sta tramutando in un campo di battaglia. Il corteo, che continua ad arrivare, inizia a disperdersi nei giardini pubblici e nelle traverse laterali. Proviamo ad avvicinarci alla barricata di automezzi quando avvertiamo gli scoppi delle prime bombe mentre ci passano accanto alcuni ragazzi con il volto coperto da caschi, sciarpe e passamontagna; poco dopo ci arriva un grido: “stanno caricando!”. E’ il fuggi-fuggi generale, non so nemmeno quanto giustificato dal momento che siamo ad almeno duecento metri dall’incrocio. Ciò che avvertiamo distintamente, invece, è l’effetto dei lacrimogeni, che ci prende gli occhi e ci costringe a coprirci il viso; dura poco, per fortuna, visto che siamo relativamente “lontani”. La maggior parte della folla – giovani e meno giovani, e c’è anche qualche bambino – si dirige verso i giardini dell’Esquilino. Si avverte che poco più avanti la tensione sta crescendo: il fuoco non accenna ad arrestarsi, qualcuno si arrampica sui lampioni urlando. Si moltiplicano le scritte sui muri: “Carlo vive morti siete voi”, recita una. Da qui in poi, è cronaca.
Decidiamo di prendere la strada del ritorno. Intorno al Colosseo, su via dei Fori Imperiali e persino su una martoriata via Cavour il corteo continua la sua marcia. Ancora personaggi ambigui (ambigui?) si annidano tra la folla: felpe nere, caschi, sciarpe a coprire il viso, bandiere legate ad aste di legno di almeno cinque centimetri di diametro. I poliziotti a protezione di piazza Venezia sono sempre li. Tentiamo di prendere una traversa di via Cavour per arrivare alla stazione Termini, ma i poliziotti sono inflessibili. Hanno bloccato l’uscita con i loro mezzi e non sono intenzionati a far passare nessuno. Neanche un’anziana signora che continua a ripetere “io abito qui!”. Alla traversa successiva restano bloccati anche un gruppo di turisti stranieri. A quella dopo ancora le forze dell’ordine, in tenuta antisommossa, hanno aperto un varco tra gli automezzi e fanno passare una persona per volta. Tornati a casa verremo a sapere che, nello stesso momento, i loro colleghi poco più avanti stavano combattendo una vera e propria guerra.
La stazione Termini è gremita, i tunnel decisamente affollati per essere sabato pomeriggio. Una signora sul vagone della metropolitana cerca di spiegare a due turisti stranieri il significato del cartello che porta con se, che vede un’allegoria della Repubblica prendere a calci il proprio Presidente del Consiglio; ci racconta che alla manifestazione si era fatto vedere anche Marco Pannella, puntualmente e pesantemente contestato dai presenti. La stazione metro di Rebibbia è affollata di pullman provenienti da tutta Italia. Si sentono, declinati in varie cadenze, i commenti di un popolo deluso ed amareggiato, più che veramente arrabbiato. Questa è la vera anima ed il vero corpo di questa giornata che è stata uccisa sul nascere da una sparutissima minoranza di delinquenti che non hanno nulla da spartire né con i partiti, né con la politica, né con l’indignazione. Semplicemente parassiti che si annidano nel corteo e che, proprio come fanno i parassiti, uccidono il proprio ospite.
E’ inevitabile chiedersi anche come non si sia potuto in alcun modo impedire che evidenti segnali di pericolo siano degenerati in una minaccia non solo per i manifestanti ma anche per le stesse forze dell’ordine. Era davvero impossibile stroncare sul nascere questi atti di vandalismo ed inciviltà prima che diventassero furia cieca ed assassina? Perché tenere fermi per ore decine e decine di uomini equipaggiati ed addestrati per far fronte ad emergenze, e farli intervenire solo quando l’emergenza è in atto? C’erano dei segnali tangibili ed ora ci rimangono solo tante domande campate in aria. Non credo valga la pena formulare ipotesi, perché molto spesso con le ipotesi infondate si scade nella dietrologia sterile.
Quello che è certo è che ieri qualcuno ci ha privato di un diritto fondamentale. L’augurio è che quel qualcuno riceva ora il nostro dissenso e la nostra rabbia ma che non riesca a portare a casa la nostra paura e la nostra rassegnazione. Stanchi, sfiduciati, nervosi, ancora più indignati e, forse, un po’ più innamorati del nostro Paese.
(pubblicato su www.lindro.it)