Maria Concetta e l’acido muriatico

(di Angela Corica)
Da piccola cominciano a trasmetterti i loro valori, da adolescente vivi in un contesto che non ti dà la possibilità di emergere. Ancor prima della maggiore età, il più delle volte, ti sposi con un marito che non hai scelto tu; che qualcun altro ha scelto per te. La tua stessa famiglia magari. Una volta sposata, quasi subito arrivano i figli. Uno, due, tre. I figli sono importanti a far crescere la famiglia. Già, la famiglia. Quella d’onore però. Anche per i tuoi figli sai già che si potrà ripetere la tua stessa storia. Nei loro occhi vedi il vuoto che senti dentro di te. Preghi per loro. Ma non basta. Hai due strade davanti: accettare con consapevole rassegnazione il tuo destino, che tutti pensano sia stato scritto da qualcuno in alto lassù per te; o ribellarti, attraverso i mezzi che pensi siano i più giusti.
Così Maria Concetta Cacciola ha scelto di ribellarsi. L’abbiamo già scritto ma è utile ribadire la sua fine tragica, dovuta al fatto di aver provato a spezzare il cerchio in cui era costretta a girare, per salvare i suoi figli, per non fargli vivere la sua stessa vita di privazioni e silenzi. Nata in ambiente mafioso, si è sposata con un uomo che attualmente sconta una pena di otto anni per mafia. Voleva strappare i suoi figli da quel mondo ma, lo scorso 21 agosto crolla e si ammazza. “Collaboratrice di giustizia si suicida con l’acido muriatico”. La notizia è apparsa su tutti i principali siti e quotidiani e ha fatto il giro del Paese. Luci e ombre si alternano in questa vicenda, proviamo a dare due letture di quello che è diventato un “caso nel caso”.
L’INIZIO E LA FINE : Maria Concetta Cacciola aveva deciso di collaborare con la giustizia da quattro mesi. Di sua spontanea volontà, col marito in carcere, si era recata dai carabinieri a cui aveva chiesto di essere sentita affinchè potesse raccontare quanto a sua conoscenza. Lei non era indagata né era coinvolta negli affari della famiglia. Quella famiglia che per ragioni di parentela è legata ai Bellocco, una delle più potenti cosche operanti nel territorio di Rosarno. Questa decisione Maria Concetta l’aveva presa da sola. Dopo aver manifestato le sue intenzioni è riuscita ad entrare nel programma di protezione che ha comportato l’allontanamento da Rosarno. Senza i suoi figli, coloro per i quali aveva sfidato la sua famiglia scegliendo la strada della collaborazione. Non riesce a stare lontana da loro per lungo tempo. Al punto tale che riparte, sempre di sua volontà, alla volta di Rosarno lo scorso 10 agosto per tornare dalla sua famiglia, dai sui tre figli. Non sappiamo cosa sia successo in circa dieci giorni di permanenza nella sua città, a casa dei suoi genitori. Probabilmente ci sono state liti per la sua decisione, anche perché rischiosa in un contesto mafioso. O forse no. Ma a un certo punto Maria Concetta, a soli 31 anni (ancora una vita davanti) crolla. Si uccide o viene indotta al suicidio, anche su questo sta indagando la Procura. E decide di uccidersi lasciando a Rosarno, in quella casa da cui lei voleva fuggire, i suoi figli che tanto avrebbe voluto portare con sé. Tutto finisce quando viene a contatto con l’acido muriatico, che ingerisce. Questo le provoca la morte appena arriva in ospedale a Polistena. La città è sconvolta, la sua morte rievoca altre storie terribili verificatesi recentemente in Calabria, tutte legate dall’unico filo conduttore: il suicidio con l’utilizzo dell’acido muriatico. L’autopsia fatta sul corpo della giovane non ha rivelato segni di violenza. Il che conferma, in un certo senso, l’ipotesi del suicidio.
UN GIORNO DOPO LA MORTE la madre di Maria Concetta, Rosalba Anna Lazzaro scrive una lettera che manda alla Gazzetta del Sud. Un messaggio chiaro, inequivocabile: la figlia è stata lasciata sola dallo Stato che invece doveva proteggerla e l’ha portata a fare delle rivelazioni con la promessa di strapparla a quel mondo che non accettava. Con una lucidità impressionante questa madre scrive sul quotidiano regionale calabrese cominciando a fare capire quale sarebbe stata la linea della famiglia.
DOPO LA LETTERA I GENITORI DELLA CACCIOLA (Rosalba Anna Lazzaro insieme al marito Michele Cacciola) hanno presentato un esposto – denuncia contro ignoti, proprio per mettere in dubbio tutto il periodo di collaborazione della figlia. In questo testo si fanno direttamente presenti le presunte “pressioni” e false promesse” fatte a Maria Concetta per spingerla a dire quanto sapeva. La figlia, insomma, sarebbe stata spinta con “l’inganno”, facendo pressioni su una “personalità fragile e minata da uno stato psichico depressivo”.
A SUPPORTO DELLA LORO TESI I GENITORI HANNO ALLEGATO UNA LETTERA DELLA FIGLIA E UNA REGISTRAZIONE AUDIO DEL 12 AGOSTO, in cui Maria Concetta – a due giorni dal rientro a Rosarno – ha spiegato che le dichiarazioni rese ai magistrati contro i propri familiari erano dettate dalla “rabbia per le restrizioni alla libertà subite dai congiunti”.
Dunque un “caso nel caso”. Perché se da un lato, seguendo la pista del suicidio, bisogna capire perché ha lasciato i suoi figli, perché li ha resi testimoni di una morte così brutale e violenta, perché si è arresa e perché è tornata a Rosarno lasciando la protezione che lo Stato le aveva comunque garantito, al di là delle possibili carenze che si sono riscontrate durante il suo soggiorno a Rosarno. Lei probabilmente sapeva che a casa non l’avrebbero accolta a braccia aperte. Era sicuramente fragile, giovane, donna, piena di sogni di libertà, colpevole solo di non aver accettato il destino che altri avevano scelto per lei. Tutte illusioni che sono svanite davanti ai suoi occhi. Perché ha deciso di soffrire così tanto?
E perché, dall’altro lato, troviamo la forza, la determinazione, l’insistenza della famiglia, la sfiducia che in questi giorni si sta seminando contro lo Stato. Uno Stato che abbandona, non tutela, lascia solo chi collabora. Il messaggio è forte ma troppo chiaro perché rimanga inascoltato. La famiglia ha sete di giustizia ma non si fida della giustizia. Accuse, veleni, messaggi più o meno impliciti da una parte e dall’altra un dolore taciuto, una vita spezzata improvvisamente e terribilmente. Fra le ipotesi al vaglio della Procura c’è anche quella dell’induzione al suicidio. Solo a pensarci vengono i brividi, basti pensare a cosa si prova ingerendo dell’acido muriatico….
Altri due elementi: ci sono delle morti che rievocano un linguaggio tutto mafioso. L’acido in primo luogo, da sempre il simbolo di chi ha voluto fare sparire i morti ammazzati dalla mafia, l’uso di ingerire questa sostanza soffrendo così tanto prima di morire; l’utilizzo dell’acido da parte (o per) i pentiti in questa terra come anche un tempo in Sicilia; e c’è una costante storica, insita nell’evoluzione mafiosa: la lotta fra cosche per il potere. C’è il fatto che chi tradisce la famiglia è costretto a morire in qualche modo, così da dimostrare la forza della famiglia stessa rispetto ad altre. Se non con l’omicidio, con il suicidio, perché a un certo punto, si diventa talmente deboli e ci si sente talmente soli che la vita non ha nessun senso. La fragilità di Rita Atria e la forza della madre che colpisce quella lapide con scritto “la verità vive” tornano alla mente sempre. Perché Piera Aiello, la cognata della giovane Rita che si è immolata per la libertà, aveva ragione “la verità vive”, sempre.

(di Laura Aprati)

L’ingestione anche di una boccata di acido muriatico provoca la perforazione dell’esofago, un necrosi molto rapida del mediastino, sede di molte delle arterie principali. Causa emorragie e un rapido collasso. La morte sopraggiunge molto velocemente e con una dolorosa agonia.
Così, sinteticamente, un gastroenterologo dell’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma mi ha spiegato cosa vuol dire suicidarsi con l’acido muriatico. Nella sua lunga carriera clinica ha visto solo 3 casi del genere, tanti quanti ce ne sono stati in Calabria dal 16 dicembre 2010 (Orsola Fallara), passando per il 16 aprile 2011 (Tita Buccafusca) e per finire il 22 agosto con Maria Concetta Cacciola.
Tornata da Rosarno ho cercato di capire, in maniera scientifica, cosa può essere successo ad una giovane donna di 31 anni. Che tipo di depressione, quali sollecitazioni, quali pressioni ti spingono a bere l’acido muriatico, che provoca subito un intenso bruciore, che ti spinge a vomitare e ad urlare per il dolore. Perché si sceglie di farlo nella casa dei propri genitori e sapendo che a questo dramma assisteranno i tuoi figli.
Non ci sono risposte certe ma sicuramente ci sono dubbi, ombre, perplessità che la magistratura dovrà dissipare.
Provo a ragionare a voce alta.
Prima ipotesi
: Maria torna a Rosarno nella speranza che la sua famiglia, e soprattutto sua madre, possano capire il suo gesto e magari, chissà, pensa di portare via anche i suoi figli. Non immagina ciò che l’aspetta. Un muro che la rigetta, che la rimprovera ,che le rinfaccia quello che ha fatto :“collaborare con lo Stato”, il nemico. Le pressioni si spingono a sfiorare i suoi figli, carne della sua carne. Coloro per i quali lei ha scelto di saltare il fosso perché possano avere una vita diversa dalla sua. Le pressioni sono così forti e lei vede così in pericolo i suoi figli che decide di “togliere” il disturbo e lo fa in modo drammatico, atroce. Perché una mamma potrebbe giungere ad un gesto simile per tutelare la propria prole. E lavorando su questa ipotesi si può supporre che qualcuno l’abbia indotta a questo gesto. E chi può essere stato?La madre, donna e madre anche lei, che magari conosce bene i punti deboli della figlia?
Seconda ipotesi: Maria deve avere e deve essere di lezione per molti. La sua morte deve diventare un manifesto mafioso. E quindi l’acido, che mangia tutto, una morte dolorosa che deve cancellare “lo sgarro” e dimostrare anche la lealtà della famiglia alle regole d’onore. Come si nasconde un omicidio in un suicidio? Una sedazione, un imbuto, una cannula nel naso….Ma anche qui tutto si concentra su una figura: la madre di Maria Concetta. Semmai questa ipotesi potesse essere verosimile,come ha potuto assistere all’omicidio della figlia?
Questi due scenari fanno però emergere, in maniera forte e determinata ,il ruolo delle donne nel crimine organizzato. Sono loro che possono fare la differenza tra legalità e illegalità, tra giusto e ingiusto. Sono loro che educano e indicano la strada ai propri figli e sono anche loro che decidono se devono vivere o morire.
E’ la mamma di Maria Concetta che, il giorno dopo la morte della figlia, scrive ad un quotidiano regionale per dire che è stata “tradita dallo Stato” che ha abusato della sua “fragilità psicologica”. Con queste parole segna l’appartenenza della sua famiglia all’antistato e nello stesso tempo parlando di “fragilità psicologica” è come se sminuisse totalmente quanto detto dalla figlia ai magistrati. Un po’ come dire “non ci stava con la testa”, che è quello che spesso si dice quando non si capisce il gesto o il modo di comportarsi di una persona . Ed è sempre la madre che deposita in Procura una registrazione della figlia, fatta qualche giorno dopo il ritorno a Rosarno, dove la giovane donna declassa le sue dichiarazioni ai magistrati quasi ad una ripicca per le restrizioni familiari a cui era soggetta. Ed è sempre la madre, attorniata da familiari ed avvocati, a parlare e ad alimentare l’idea di uno Stato “che non mantiene le promesse”. Un’accurata regia comunicativa (che fa esclamare ad una collega di una rivista “ma qui parla solo la famiglia!”), quasi una sceneggiatura da film. Purtroppo è la realtà della Calabria di oggi.
Dove, nonostante la ‘ndrangheta sia cresciuta economicamente e sieda anche, sotto diverse forme, nei consigli di amministrazione di banche e grandi imprese, ancora si muore per aver tradito la famiglia. Dove l’emancipazione, da una vita non scelta, ha un costo molto alto tanto alto da scoraggiare anche le piccole ribellioni. Da rendere sempre più difficile passare dall’altra parte, quella dello Stato.