Libero Grassi e l’economia criminale vent’anni dopo
(di Luca Rinaldi)
Libero Grassi era un imprenditore siciliano. Nacque a Catania nel 1924 e morì a Palermo il 29 agosto del 1991. Fu la mafia a mettere fine alla vita di Libero Grassi. Uccidendolo: Libero si rifiuta di pagare il “pizzo” a Cosa Nostra.
La prima richiesta arriva a metà degli anni ’80 tramite una telefonata in cui vi sono le prime minacce. Nel caso in cui Grassi non avesse saldato il conto al “regime” mafioso, che mandava i riscossori, le minacce si sarebbero trasformate in realtà. Grassi non paga e come primo atto intimidatorio viene rapito il cane, Dick, poi restituito alla famiglia in fin di vita. L’imprenditore è conscio che questo è solo l’inizio, la sua azienda fa gola alla criminalità organizzata. Con il suo fatturato da sette miliardi di lire all’anni è la terza azienda leader nel settore della pigiameria.
Ma Libero, come dice il suo nome, non ci sta, e vuole farlo sapere ai suoi estorsori, che nel frattempo hanno tentato di rapinare le paghe dei dipendenti in azienda. Dunque prende carta e penna e scrive al tale geometra Anzalone, per comunicargli la scelta di non dare una sola lira all’organizzazione criminale per il pizzo. Scrive una lettera al Giornale di Sicilia il 10 gennaio del 1991: “Volevo avvertire il nostro ignoto estortore che non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia […] Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.L’indifferenza degli industriali siciliani verso le posizioni di Grassi è disarmante. L’imprenditore rifiuta l’assegnazione di una scorta, ma consegna le chiavi dei propri stabilimenti alla polizia per fornire protezione almeno alle sue attività e ai suoi dipendenti.
Nell’aprile del 1991 Libero Grassi racconta la sua storia a Samarcanda, trasmissione di Michele Santoro. L’intervista di Grassi è una dichiarazione di guerra nei confronti di Cosa Nostra, che non tarda a prendersi la sua vendetta. Quattro mesi dopo, il 29 agosto del 1991, alle 7.30 di mattina, l’imprenditore siciliano viene freddato a Palermo. Per l’omicidio di Grassi verranno condannati nel 2004 Salvo e Francesco Madonia come mandante e killer dell’imprenditore.
Venti anni dopo, l’aggressione delle mafie alle imprese non solo non è terminata, ma è diventata uno dei business primari delle organizzazioni criminali. Decine di processi e di indagini ci restituiscono l’immagine di una economia criminale sempre più in espansione che difficilmente imprenditori e imprese riescono a contrastare. In periodi di crisi, come in questa congiuntura economica, finire nelle mani delle mafie con la propria azienda è ancora più semplice. Non è poi semplice denunciare e anzi, in molte occasioni avere teste di ponte della criminalità organizzata in azienda diventa per alcuni un utile arma per intimidire e turbare appalti e lavori altrui.
A titolo di esempio possiamo citare le indagini del processo “Infinito”, che ha portato all’arresto e all’individuazione dei nuovi equilibri della ‘ndrangheta in Lombardia. L’imprenditoria è chiamata in causa più volte. Anzi, l’indagine intera parte proprio da una costola riguardante una delle maggiori aziende lombarde specializzata nella produzione di asfalti, strade et similia.
A confermare la permeabilità del mondo imprenditoriale all’infiltrazione mafiosa è la stessa pm Ilda Boccassini, che quelle indagini ha coordinato per due anni da Milano in stretto contatto con la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. “Vi è una parte della nostra imprenditoria – afferma Boccassini – che ha interesse a fare affari con le organizzazioni criminali. L’esperienza mi induce a pensare che vi è convenienza e consapevolezza”. Non solo però “non c’è una coda di imprenditori pronti a denunciare. Eppure – prosegue la pm di Milano applicata alla Direzione Distrettuale Antimafia – non si fermano i danneggiamenti alle auto, gli atti di intimidazione, gli atti incendiari e la violenza. Nonostante questo, interpellati, chi subisce queste cose dice di non sapere il perché. Ma non credo si tratti solo di paura”.
Venti anni dopo la nostra società, tutta e non solo quella imprenditoriale, ha ancora bisogno più che mai del messaggio di Libero Grassi, morto solo in una Sicilia, in cui, ancora oggi, come scrive la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) nell’ultimo rapporto semestrale (2° semestre 2010) le “metastasi più pericolose sono quelle imprenditoriali, politiche e finanziarie”.I metodi si evolvono e la cultura passa da quella di coppole e lupare a quella “più sottile e meno appariscente manageriale”. Un fenomeno che non è tutto siciliano e non riguarda solo Cosa Nostra, ma tutta la società e le attività imprenditoriali a contatto sempre di più con l’economia criminale pronta a “mettersi nelle mani” anche l’economia legale.
(lucarinaldi.blogspot.com)