Esame di maturità: tappa o traguardo?

Il caldo, i libri, le materie verso cui non provi alcun interesse, gli amici già al mare che tu non puoi raggiungere. I gruppi di studio che di studio hanno ben poco, l’ansia dell’ultimo minuto, la sensazione che il trillo dell’ultima campanella della tua vita sia il suono di commiato a una parte di te che rimarrà sospesa per sempre in quell’attimo. Lasciato alle circolari ministeriali l’astruso burocratese di termini come “piano dell’offerta formativa”, sono queste le immagini impresse nella mente (e qualche volta nel cuore) di generazioni e generazioni di studenti che, dalla riforma Gentile del 1923, hanno affrontato l’esame di maturità. Un traguardo divenuto accessibile a fasce sempre più estese della popolazione, e declinato oggi in circa 700 indirizzi diversi. Quell’offerta diversificata fino all’assurdo che l’ultima riforma ha drasticamente ridotto a 24 indirizzi.

Cinquecentomila è il numero magico. Per la precisione 496 mila quest’anno. Maturando più, maturando meno, il numero dei diplomati italiani rimane più o meno quello degli abitanti di una provincia come Ancona o Bolzano, corrispondenti all’incirca al 98% degli ammessi all’esame di Stato, anche se le cifre per il 2011 sono ancora decisamente aleatorie. Un anno che sicuramente non ha lasciato spazio alla monotonia per noi studenti delle scuole superiori, in un crescendo di occupazioni e proteste che hanno visto il loro culmine in quello che è stato un vero e proprio “inverno caldo” della scuola. Occupazioni, scioperi e manifestazioni hanno sicuramente inciso sulle ore di lezione e sul regolare svolgimento dei programmi, che in molti casi (prassi già di per se consolidata presso molti docenti) hanno subito una battuta di arresto anticipata. Ed in questo quadro, la decisione del Miur di assegnare le materie d’indirizzo a commissari esterni, scelta che dovrebbe (dovrebbe…) garantire una maggiore uniformità di valutazione, ha rappresentato un ulteriore ostacolo per i candidati al titolo. Il che, in attesa delle statistiche sui voti, rimane ancora un’impressione, per quanto molto diffusa.

Un’impressione altrettanto diffusa, e questa volta purtroppo confermata da numeri poco contestabili, è quella sull’effettivo rendimento degli studenti italiani in determinate materie, leggi: matematica e materie scientifiche in generale. Il motto di tanti all’ultimo anno è, paradosso più grande, anche nei licei scientifici, il “la matematica non sarà mai il mio mestiere” di vendittiana memoria. E ce lo confermano le crude (e crudeli) cifre del “Programme for International Student Assessment”, uno studio promosso dall’OCSE al fine di misurare il livello di preparazione degli studenti di una sessantina di paesi di tutto il mondo in alcune macro-aree didattiche, che piazza gli scolari italiani in posizioni non proprio lusinghiere: al di sotto della media in letteratura, in scienze ed in matematica. Ventiquattro posizioni ci separano da “mostri sacri” come i colleghi finlandesi. Ed è un quadro che non mostra accenni di miglioramento. Ed è doppiamente un peccato, visto che in Italia 4 giovani su 10 sarebbero disposti a fare le valige per andare a vivere e lavorare in un altro paese senza pensarci due volte. Anche questo è un dato che appare tutt’altro che irreale. Triste che “Italia” e “futuro” siano diventati due termini cosi dissonanti tra loro. Non è una questione di perdita delle tradizioni, di disaffezione ai valori della patria e dello Stato. Ma quando mai. Il problema è affacciarsi alla finestra del “villaggio globale” e vedere che tanti altri stanno meglio di te senza alcuno sforzo ulteriore. Non è un caso che solo nell’ultimo anno gli italiani all’estero siano 90 mila in più.

Dopo il diploma, per il 60% dei giovani si aprono le porte di una facoltà universitaria. Netta preferenza per le materie umanistiche, poco in voga quelle scientifiche, che va da se sono poi le più richieste. Viene da chiedersi per quanti proseguire gli studi rappresenti davvero la volontà di specializzarsi in un ramo professionale, oppure una scelta “di comodo” per restare studenti ancora per qualche anno. E non c’entra niente la visione distorta e allucinata che il ministro Brunetta ha di noi giovani italiani: è un dato di fatto che li fuori, per noi, non c’è un posto di lavoro, ed il 30% degli under 30 è disoccupato. Vale a dire, non studia, né lavora: e allora, se le finanze familiari lo permettono, lo studio universitario può essere un’ulteriore via di fuga al vuoto pneumatico delle opportunità. Poche matricole universitarie hanno presentato domanda di iscrizione inseguendo il sogno del “lavoro da fare da grande”: la stragrande maggioranza decide proprio negli ultimi mesi delle scuole superiori.

E’ vero, a vent’anni siamo forse più “ragazzi” e meno “uomini” rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto: con qualche opportunità in più, però, molto probabilmente avremmo molta meno paura, dopo il diploma, di aprire la porta della vita “da grandi”.