A 30 anni dalla morte di Alfredino Rampi
(di Rossella Fierro)
Era un mercoledì qualsiasi di trent’anni fa, un giorno come tanti da trascorrere nella spensieratezza delle fresche campagne tra Frascati e Vermicino, dove la famiglia Rampi amava rifugiarsi per fuggire il caos quotidiano del centro di Roma. Ferdinando e Francesca, papà e mamma, non potevano immaginare che di lì a poco i loro volti disperati sarebbero entrati nelle case di tutto il Paese. Francesca aveva messo al letto il piccolo Riccardo un anno, mentre nonna Veja preparava la cena e Ferdinando rincasava. All’appello mancava solo Alfredo, sei anni, il maggiore dei figli di Ferdinando e Francesca. Inizia così la tragedia di Vermicino: Alfredino Rampi era caduto in un pozzo artesiano profondo 80 metri: era il 10 giungo 1981 quando le telecamere della Rai si accesero su quella che sarebbe diventata la prima morte in diretta tv, 18 ore senza interruzioni di diretta a reti unificate. Ventuno milioni di italiani rimasero attaccati allo schermo per seguire minuto per minuto le ultime ore di vita di Alfredino, gli ultimi respiri, gli sforzi disumani e mal coordinati dei soccorritori che a decine si calarono per tentare l’impossibile. Tutta l’Italia era sul ciglio di quel maledetto pozzo: arrivò anche il mitico presidente Pertini a consolare i genitori, a tranquillizzare il piccolo che a mano a mano si spegneva incastrato con tutte le parti del corpo e senza più ossigeno per respirare. Alfredino spirò il 13 giugno forse intorno alle 6:30 del mattino, il suo corpo rimase intrappolato laggiù per altri 28 giorni. Il dramma era stato “trasmesso” come ricordano i Baustelle nella canzone che porta il nome del bambino: “E Dio guardava il Figlio Suo in diretta lo mandò a Woytila e alla P2, a tutti lo mostrò, a Forlani e alla Dc a Pertini e Platini, a chi mai dentro di sé il vuoto misurò”. Alfredino avrebbe lasciato un vuoto dentro la coscienza del Paese, un vuoto che oggi neanche l’appello del Presidente Napolitano, in risposta a Claudio Magris sul Corsera, a non rassegnarci “all’assuefazione della morte che porta all’indifferenza”, può colmare. Quel vuoto è pieno di storie e di nomi: Chiara (Poggi), Sara (Scazzi), quello di Yara (Gambiraso). Una nuova geografia dell’orrore che porta alla scoperta di luoghi prima sconosciuti da Cogne ad Avetrana, passando per Garlasco arriviamo a Brembate di Sopra, in un veloce tour dell’orrore che passa per i plastici di Porta a Porta fino ad arrivare alle mani sporche di terra dei zio Michele in un primo piano quasi umanizzante di Matrix. E in mezzo il telespettatore che seduto sul comodo della sua poltrona, magari mentre consuma la cena o gioca con i suoi bambini, continua a ricercare particolari quanto più macabri possibili. “Hai sentito Michele ha detto che Sara ha provato a difendersi mentre lui le stringeva la corda intorno al collo”. “Si, ma poi l’ha violentata da morta o da viva?”. In ogni momento della giornata c’è una trasmissione ad hoc per assistere alla “tragedia in diretta”. Meglio ancora se c’è il mostro, magari, questo è il top, è un familiare.
Milioni di spettatori dell’orrore pronti a far schizzare lo share alle stelle, a calpestare il sorriso di Alfredino, tutti in attesa di un nuovo giro nel plastico della spettacolarizzazione della morte e del dolore.