Precari, un esercito

(di Paolo Borrello)

Sono un esercito di quasi quattro milioni di persone (esattamente 3.941.400) i lavoratori precari in Italia. Il 56% di loro è occupato nelle regioni del centro-sud. Tra il 2008, inizio della crisi, e il 2010, sono aumentati del 4%.Sono i dati con i quali la Cgia di Mestre fotografa il fenomeno del precariato italiano, che proprio oggi manifesta nelle piazze di mezza Italia.Oltre il 38% ha solo la licenza media; tra gli under 35 il livello retributivo mensile netto è di 1.068 euro, un importo inferiore del 25,3% (cioè di 282 euro) a un lavoratore a tempo indeterminato che svolge le stesse mansioni.
I precari italiani sono concentrati soprattutto nel settore della ristorazione (35,5% sul totale), seguìto dai servizi pubblici, sociali e alle persone (33,4%), e dall’agricoltura (28,4%).
A livello territoriale, secondo la Cgia, è il centro-sud a presentare la concentrazione più elevata (56%). Il Mezzogiorno, tra le quattro ripartizioni geografiche, è l’area che in termini assoluti ne presenta di più (1.336.329). Rispetto a una media nazionale del 17,2%, nel Mezzogiorno l’incidenza dei precari sul totale degli occupati è del 21,6%.
Tra il 2008 e il 2010 gli atipici sono aumentati del 4%.Nel nordest l’incremento è stato dell’8,3%; nel nordovest dell’8,9%. A livello regionale, la crisi economica ha fatto esplodere i precari in Trentino Alto Adige (+20,7%) e in Emilia Romagna (+20,3%). Forte invece il calo registrato nelle regioni del sud e in Veneto (-4,6%).Gli artigiani mestrini sottolineano poi il dato della bassa scolarità; oltre il 38% degli atipici ha solo la licenza di scuola media inferiore. ‘Questi precari con basso titolo di studio – afferma il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – sono coloro che rischiano più degli altri di essere espulsi dal mercato del lavoro. Nella stragrande maggioranza dei casi svolgono mansioni molto pesanti da un punto di vista fisico e sono presenti soprattutto nel settore della cura alla persona, in quello alberghiero, in quello della ristorazione e nell’agricoltura. Per questo la formazione deve essere posta al centro di qualsiasi attività che abbia come obbiettivo la professionalizzazione di questi lavoratori’”.

L’appello, pubblicato su www.ilnostrotempoeadesso.it,  in seguito al quale sono state indette le manifestazioni del 9 aprile, è il seguente:
“Non c’è più tempo per l’attesa. E’ il tempo per la nostra generazione di prendere spazi e alzare la voce. Per dire che questo paese non ci somiglia, ma non abbiamo alcuna intenzione di abbandonarlo. Soprattutto nelle mani di chi lo umilia quotidianamente.
Siamo la grande risorsa di questo paese. Eppure questo paese ci tiene ai margini. Senza di noi decine di migliaia di imprese ed enti pubblici, università e studi professionali non saprebbero più a chi chiedere braccia e cervello e su chi scaricare i costi della crisi. Così il nostro paese ci spreme e ci spreca allo stesso tempo.Siamo una generazione precaria: senza lavoro, sottopagati o costretti al lavoro invisibile e gratuito, condannati a una lunghissima dipendenza dai genitori. La precarietà per noi si fa vita, assenza quotidiana di diritti: dal diritto allo studio al diritto alla casa, dal reddito alla salute, alla possibilità di realizzare la propria felicità affettiva. Soprattutto per le giovani donne, su cui pesa il ricatto di una contrapposizione tra lavoro e vita.

Non siamo più disposti a vivere in un paese così profondamente ingiusto. Lo spettacolo delle nostre vite inutilmente faticose, delle aspettative tradite, delle fughe all’estero per cercare opportunità e garanzie che in Italia non esistono, non è più tollerabile. Come non sono più tollerabili i privilegi e le disuguaglianze che rendono impossibile la liberazione delle tante potenzialità represse.
Non è più tempo solo di resistere, ma di passare all’azione, un’azione comune, perché ormai si è infranta l’illusione della salvezza individuale. Per raccontare chi siamo e non essere raccontati, per vivere e non sopravvivere, per stare insieme e non da soli.
Vogliamo tutto un altro paese. Non più schiavo di rendite, raccomandazioni e clientele. Pretendiamo un paese che permetta a tutti di studiare, di lavorare, di inventare. Che investa sulla ricerca, che valorizzi i nostri talenti e la nostra motivazione, che sostenga economicamente chi perde il lavoro, chi lo cerca e chi non lo trova, chi vuole scommettere su idee nuove e ambiziose, chi vuole formarsi in autonomia. Vogliamo un paese che entri davvero in Europa.
Siamo stanchi di questa vita insostenibile, ma scegliamo di restare. Questo grido è un appello a tutti a scendere in piazza: a chi ha lavori precari o sottopagati, a chi non riesce a pagare l’affitto, a chi è stanco di chiedere soldi ai genitori, a chi chiede un mutuo e non glielo danno, a chi il lavoro non lo trova e a chi passa da uno stage all’altro, alle studentesse e agli studenti che hanno scosso l’Italia, a chi studia e a chi non lo può fare, a tutti coloro che la precarietà non la vivono in prima persona e a quelli che la ‘pagano’ ai loro figli. Lo chiediamo a tutti quelli che hanno intenzione di riprendersi questo tempo, di scommettere sul presente ancor prima che sul futuro, e che hanno intenzione di farlo adesso”.
Lo studio della Cgia di Mestre dimostra la validità di quanto sostenuto nella parte iniziale dell’appello. 4 milioni di precari sono molti e quindi è profondamente vera l’affermazione “Siamo la grande risorsa di questo paese. Eppure questo paese ci tiene ai margini. Senza di noi decine di migliaia di imprese ed enti pubblici, università e studi professionali non saprebbero più a chi chiedere braccia e cervello e su chi scaricare i costi della crisi…”. E, paradossalmente, è proprio il loro numero così elevato, il fatto che svolgano un ruolo così importante nell’ambito dell’economia italiana, la causa principale, a mio giudizio, dell’insufficiente attenzione nei confronti dei precari, della carenza di interventi concreti volti a ridurre il loro numero, favorendo la diffusione di rapporti di lavoro stabili. Ma nonostante questo è necessario comunque contrastare la precarietà, per tutti i motivi contenuti nell’appello, realizzando tutte quelle riforme strutturali del sistema economico italiano che consentano ad esso di “sopportare” un numero molto meno consistente di lavoratori precari.

(pubblicato sul blog di Paolo Borrello)