Tutte le facce di una Costituzione.
Alla stazione Termini riesco a stento ad entrare nella metropolitana: il vagone è quasi tutto occupato da un gruppo di una ventina di bambini sui dieci anni, la cui vivacità è a stento tenuta a freno da alcuni accompagnatori adulti. Chissà dove sta andando questo gruppo cosi variopinto, bimbi e chitarre al seguito. Come me scendono a Piazza della Repubblica, e si mescolano alla mischia che, poco prima delle 14, già riempie a metà la piazza. Qui inizia il C-Day, la manifestazione organizzata da chi vuole ribadire per l’ennesima volta l’importanza imprescindibile della nostra Carta costituzionale. E come si intuisce, è una folla eterogenea: ci sono ragazzi appena usciti di scuola che tirano fuori gli striscioni dai loro zaini; ci sono lavoratori, come un gruppo di operai della Technicolor di Roma; c’è un gruppo di bambini delle scuole elementari con i loro insegnanti; ci sono anziani signori per cui la Carta è una figlia della loro stessa epoca. Il collante di tutto ciò è uno stuolo di bandiere italiane; il tricolore declinato in tutte le forme, fino ad arrivare a quello più grande, lungo qualche decina di metri, posto in testa al corteo. Una marcia pacifica e vitale, che non fa nulla per passare inosservata ed inascoltata. Qualcuno parte con uno slogan da stadio, all’altezza di Piazza del Tritone qualcuno, in testa, intona Bella ciao, ed in un attimo tutto il corteo si unisce per dare il giusto tributo a chi, intonando quel canto, ha contribuito a far vedere luce alla nostra Costituzione. Poco dopo Trinità de’ Monti un gruppo di ragazzi distribuisce bigliettini con stampati i vari articoli della Carta, che vengono man mano letti e commentati. E dell’articolo 54, megafono alla mano, dice “Come cittadini italiani, dovremmo poter essere fieri del nostro Paese, e dovremmo poter essere orgogliosi all’estero per la nostra cultura, la nostra arte e le nostre città belle ed uniche; siamo stanchi di essere lo zimbello internazionale a causa di chi ci governa, per cui l’onore e la disciplina non contano nulla”. Entrando in Piazza del Popolo dal Pincio, il colpo d’occhio è notevole: davanti al palco la piazza è piena per i tre quarti, e si riempie rapidamente con l’arrivo del corteo. Anche qui tutti hanno da dire qualcosa in difesa delle basi del nostro diritto. Pochi riferimenti a nomi politici, niente antiberlusconismo gridato ed ostentato: salta all’occhio il cartellone di un ragazzo “Quo usque tandem Silvio, abuter patientia nostra?”; un po’ meno velata un’arzilla signora che scherza su “Trombolo, l’ottavo nano”. Ma mi sciolgo quasi davanti a due bimbe che, in piazza con i genitori, hanno scritto sulle magliette “orgogliosa della mia Repubblica”. Qualcuno lo chiama indottrinamento: a me tutto ciò sembra uno dei migliori lasciti che gli adulti di oggi possono trasmettere agli italiani del domani. L’amore e la voglia di lottare per ciò che si ama.
L’impressione generale è che, dopo tante manifestazioni “contro”, questa sia una manifestazione “per”. Una manifestazione che assume molteplici sfaccettature, una lotta che si declina in molteplici forme. Come infinite sono le forme che la Costituzione assume nella vita di ciascuno. C’è ad esempio lo stand del comitato promotore per il referendum che vuole abrogare il decreto sulla privatizzazione delle risorse idriche: “L’acqua pubblica è un bene comune, – ci spiega una delle attiviste – un bene inalienabile, fa parte di quei beni catalogati come il fuoco, la terra, l’aria, e la Costituzione è un bene comune che attiene ai diritti di ciascuno di noi, non è di una parte politica.”
Poco più in la, un signore sventola una grande bandiera su cui ha scritto gli articoli che sente più vicini: l’articolo 36 in primis “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa: un punto fondamentale per la dignità dell’uomo!”; oltre agli articoli della Carta, sulla sua bandiera c’è una citazione di sapore classico “Gli studenti non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere; una frase di Plutarco, che mi sembra molto attuale anche se viene da tanti anni fa”.
Due ragazze portano lo stesso cartellone appeso al collo, “Io adotto l’articolo 9”. Come ci spiegano, “l’articolo 9 promuove lo sviluppo della scienza, della tecnica, della protezione del patrimonio architettonico artistico ed ambientale.” E siccome una è ricercatrice universitaria e l’altra lavora nel mondo dell’arte, “abbiamo deciso di adottare lo stesso articolo, come due facce della stessa medaglia”.
Sul palco, invece, si susseguono gli interventi, intervallati alla lettura degli articoli. Il numero 101 è quello che introduce, assieme ad un grande applauso, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonino Ingroia, che parla della “controriforma” della giustizia, di come questa legge potrebbe intaccare uno dei valori che sono alla base della carta, la sovranità e l’indipendenza della magistratura. Lo segue poco dopo un altro magistrato, lo scrittore Giancarlo de Cataldo (da molti giovani immediatamente riconosciuto come l’autore di Romanzo Criminale), che dedica il suo intervento al sostegno verso il mondo della cultura, ostacolato ora come non mai perchè veicolo di idee. Dalla cultura alla scuola, con gli interventi di Silvia Calamandrei, che legge un testo di suo zio Piero, oggi tristemente profetico “Se un partito vuole introdurre una larvata dittatura, deve abbattere l’imparzialità della scuola pubblica. Come? Impoverendo i loro bilanci, allentando i controlli sui privati e dirottando verso di loro le risorse pubbliche”. Commovente e vibrante, infine, il contributo di Marco Rossi Doria “maestro di strada” dei quartieri Spagnoli, nel ricordare come lo Stato dovrebbe rimuovere ogni ostacolo che impedisce il miglioramento degli individui.
Alla fine, sale sul palco Roberto Vecchioni, una presenza forse scontata che però è la degna conclusione di questo giorno. Il prof canta insieme alla piazza la sua “Chiamami ancora amore”. Un titolo, una canzone che mi sembra quanto mai appropriata al momento.
Quasi assenti le sigle di partito: forse c’era poco di che strumentalizzare, in tutto ciò. Ma l’Italia, in questa che oggi è solo una piazza tra le tante, c’è tutta. Uno spaccato di una società che trova la sua unità rinnovata, rivissuta all’ombra dei suoi valori fondanti. Valori che ora sono sotto la pelle di un popolo, che li sente scorrere nel suo stesso sangue.
“Chiamami sempre amore, che questa maledetta notte dovrà pur finire”. Già: questa giornata è (“di gran lunga”) una delle più belle dichiarazioni d’amore degli ultimi centocinquant’anni.
(foto di Giulia Gallina)