Terremoto del Belice. Un viaggio nella memoria

(di Laura Spanò)
Poggioreale Il viaggio della memoria. Ho attraversato il lungo Corso della vecchia Poggioreale. C’è un apparente silenzio. Perché basta soffermarsi un attimo, liberarsi dai propri pensieri, ed ecco che le voci arrivano, come se mi venissero incontro, a prendermi. Le voci che mi accolgono tra loro sono quelle di donne e di uomini e di bambini. Sono entrata in quelle case. Il vecchio forno è ancora lì come una volta, la sua legna non ha smesso di riscaldare. La tavola imbandita, le credenze piene di vettovaglie. I palazzi della borghesia impreziositi ancora dagli affreschi. Ho visitato quella scuola, ed ho sentito distintamente le voci di alunni chiassosi e i rimproveri bonari degli insegnanti.

Ho salito gli scalini della chiesa, quella con le colonne che segnano il tempio dai colori ancora accesi, dietro la grata ormai consunta dal tempo ho intravisto il prete mentre dice messa. Ho raggiunto Piazza Elimi, era stracolma di gente vestita a festa. Gli uomini intabarrati in pesanti cappotti a fare comunella, sul capo l’immancabile coppola, mentre i bambini stanno a rincorrersi, fin su dove c’è il campanile che sovrasta il paesino. La finestra di una casa è appena accostata, le persiane tradiscono il volto di una giovane ragazza. L’ampia scalinata che si apre sul piazzale perfettamente rettangolare, è affollata di gente appena uscita dalla chiesa Madre. C’è gente anche davanti al teatro, si guarda la locandina, c’è chi si mette d’accordo per tornare più tardi. È domenica. Una domenica di gennaio, fredda e pungente, e benché il sole ha fatto capolino tra le nuvole, la neve ancora imbianca le cime più alte che sovrastano la Valle.

A pochi chilometri Gibellina è tutta un gran fermento, oggi si vota per il rinnovo del consiglio comunale. Per le strade la gente commenta liste e candidati. Nomi conosciuti in paese, già visti, le ultime elezioni si sono svolte il 22 novembre del 1964. I seggi sono aperti già dalla mattina. Aggrappata ad uno dei colli della Valle c’è Salaparuta, solitaria anche lei infreddolita. È un groviglio di case, piccole e grandi. Come in tutti i paesini del Belice si snoda su un asse viario centrale. In paese la vita si svolge normalmente. Poco distante Santa Ninfa e Partanna. In tutta la Valle, da Calatafimi a Montevago, da Vita a Santa Margherita Belice, da Menfi a Contessa Entellina a Grisì a Camporeale e poi via via in tutti i comuni del Belice si respira aria di festa. La Chiesa celebra la giornata dedicata alla famiglia. Lontano dalle case, in mezzo alle campagne però qualcosa sta accadendo. Di qua e di là ci sono fenditure che si aprono nel terreno, escono soffioni di gas, qualcuno sente puzza di zolfo.

La tragedia. Ma ci vuole poco perchè la vita di ognuno di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini cambiasse. Solo pochi attimi. È quanto accade mentre le tavole sono imbandite, si parla, si ride, poi i piatti ed i bicchieri dalla credenza iniziano uno strano tintinnio. E’ il terremoto. E’ la prima avvisaglia della terribile tragedia che sconvolgerà il Belìce tra poco più di 12 ore. La prima scossa è del sesto-settimo grado della scala Mercalli. È l’inizio di un incubo. Molte abitazioni subiscono danni. La gente lascia le case, va per le strade. Sono le 13.29 del 14 gennaio 1968. Passano tre quarti d’ora, alle 14.15, si replica, sesto grado scala Mercalli. Ore 16.48, ancora una nuova scossa, settimo grado Mercalli. Inizia il dramma. Le case di tutta la Valle percorsa dai tremori, diventano inagibili, la gente scappa via. Il buio prende il sopravvento e con esso la paura. La paura di non rivedere il nuovo giorno. Inizia così la notte più lunga. Il dramma in queste ore riguarda solo il Belice, il terrore che ha preso quella gente sembra non interessi a nessuno. E’ da allora che questa gente è abituata a non aspettare gli altri, a sbracciarsi e a darsi da fare. Alcuni fanno ritorno nelle case, chi per prendere qualcosa, altri per restarci. Per sempre.

Sono le 3.01 è la fine. Onde sismiche di magnitudo 6.0 e con effetti nell’epicentro del nono grado Mercalli sconquassano violentemente la Valle. Il Belice è cancellato. Le prime colonne di soccorsi che giungeranno quando la giornata di lunedì si appresta al nuovo imbrunire troveranno le stradine stravolte, bloccate dalle frane. Nella vecchia Poggioreale non ci sono più le allegre voci a circondarmi ed abbracciarmi. A 43 anni da quel terremoto si possono ancora sentire i pianti, le donne che si disperano, gli uomini che a mani nude scavano tra le macerie sperando di potere riabbracciare i genitori, le mogli, i figli. C’è il rumore assordante dei muri che si sgretolano come quando la neve si scioglie al sole e svanisce, mentre la terra continua a tremare. Sono notte fredde che accolgono quei disperati. I morti viventi vagano al buio cercando riparo sicuro da quella tragedia. Le vedo quelle persone che ancora smarrite si danno una mano. Scavano, scavano vorticosamente nel tentativo disperato di cogliere anche un piccolo anelito di vita. Le vedo, infreddolite, gli occhi smarriti, come chi ha avuto rubata l’anima. I soccorsi tardano ad arrivare. Le notizie sono confuse, molti centri rimangono isolati a causa di frane e smottamenti delle strade e sono raggiungibili solo in elicottero. I pochi volontari che in quelle prime ore giungono nei paesi colpiti, sono costretti a fare ore di marcia a piedi. La terra trema ancora per altre 32 volte.

La macchina dei soccorsi. La notizia finalmente esce fuori dalla Valle. Raggiunge il mondo che ne conosce così l’esistenza. Conosce il Belice, ma può vedere solo le macerie. Ed i volti scolpiti dal dolore di quelle donne rimaste senza marito e senza figli. Il 16 gennaio al porto di Trapani provenienti da Malta attraccano le navi inglesi Ashton, Walkerton, Crifton e Sea-Salvor. Trasportano coperte, medicinali, plasma. Alle 5,15 di quello stesso giorno, la nave traghetto Gennargentu, aveva già sbarcato automezzi per i vigili del fuoco, che già si stanno avvicinando nei luoghi della tragedia. La nave riparte per Civitavecchia, per ritornare il 18 gennaio. A Birgi intanto si insedia il coordinamento per il soccorso aereo, 15 elicotteri, la direzione viene affidata al tenente colonnello Liverani.

Nella Valle giungono dalla Francia tecnici specializzati, dall’Inghilterra arrivano plasma e ferri chirurgici. Soccorsi giungono anche dalla Germania, Norvegia, dall’America e dal lontano Giappone. Intanto alla Camera dei deputati si insedia un comitato ristretto pro-terremotati. Ne faranno parte gli onorevoli Montanti del Pri; Terranova e Gerbino della Dc, Amendola del Pci; Santagati dell’Msi; Basile del Pdium; Fulci del Pli; Raja del Psup e Sacriulli del Psi-Psdi. Ore 16.42 del 16 gennaio, la terra torna a tremare con una scossa del settimo grado della scala Mercalli, epicentro sempre la stessa zona. La terra continuerà a tremare sino al febbraio del 1969. Tantissime altre volte. E ogni volta per chi è rimasto sarà una ferita che torna a sanguinare.

Il dopo. Trascorrono i mesi ed il Belice piange i suoi 400 morti, non ci sono case per i 70 mila senza tetto, ma le baracche in lamiera. I paesi sono cancellati e adesso si raccolgono su scoscesi pendii. La vita riprende tra le baraccopoli. Ogni agglomerato avrà la sua chiesa, le botteghe, i bar, gli uffici, le scuole. Ed è come se il Belice tornasse ad essere dimenticato. Fino a quando una enorme fiaccolata, quasi 10 anni dopo, non darà la sveglia. La gente salirà sulle rovine che stanno ancora lì, nessuno le ha toccate o le ha portate via. Da lontano si vedono muoversi quelle lunghe e alte lingue di fuoco, è la gente che si rivolta contro chi aveva preso impegni e non li ha mantenuti. Oggi di quelle baraccopoli restano le basi in cemento, qualcuna è ancora piastrellata, in piedi è rimasta qualche parete. Anche lì come nella vecchia Poggioreale si sentono ancora le voci. Non sono allegre, rinnovano al viandante che passa il dolore di una terra che non c’è più, di una casa scomparsa, lamenta affetti perduti, parla con i pugni stretti alzati al cielo a imprecare contro chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto.

Le voci del Belice 43 anni dopo il terremoto si colgono tutte una per una. Non le ha coperte nemmeno quella larga e spessa coltre di cemento bianco che come un sudario copre i ruderi di Gibellina. Le voci la trapassano, escono fuori, si liberano in quel dedalo di vie che appartenevano una volta a Gibellina. Sino a quella notte del 15 gennaio del 1968.