“Se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare”.

( di Francesco Perrella)

Non voglio pronunciarmi in merito alla validità dell’accordo siglato tra Ugl, Fim, Uilm, Fismic e l’associazione dei quadri Fiat e l’Industria torinese, e che deciderà le sorti degli operai dello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Si sta già dibattendo abbastanza in queste ore riguardo la bontà del testo e le travagliate vicende ne stanno dietro; in breve, 4600 dipendenti saranno assunti a partire dal prossimo gennaio sulla base dell’accordo separato stipulato il 15 giugno scorso, a seguito del famigerato referendum a cui furono chiamati i lavoratori, e che prevede, tra le altre cose, un aumento di 360 euro lordi all’anno, ed un nuovo inquadramento professionale. Esattamente: alla fine in tasca agli operai entreranno poco più di 20 euro al mese di aumento. La Fiom verrà inoltre esclusa da ogni relazione sindacale dello stabilimento, in quanto non firmatario dell’accordo.
Qualcuno potrebbe asserire, parafrasando una celeberrima massima andreottiana, che tutto è preferibile alla morte (professionale, s’intende). Il governo tutto esulta, esultano alcune sigle sindacali per questa intesa che costringerà si gli operai a qualche sacrificio, ma che almeno garantirà loro un posto fisso. Condanna insindacabile (scusate il gioco di parole, invece, da parte di altre parti sindacali e dell’opposizione (Vendola e Di Pietro in testa). In mezzo si barcamena il secondo partito nazionale. Anche questa volta il Partito Democratico soffre di una profonda spaccatura: schierati con l’accordo alcuni nomi importanti, come Fassino e Chiamparino, sebbene la tendenza generale all’interno del partito sia quella di considerare l’accordo su due piani. Valido in un’ottica di sviluppo ed occupazione a lungo termine; d’altra parte, assolutamente condannabile per gli “strappi alla regola” compiuti. Viene da chiedersi cosa pensa la base del partito, cosa pensa l’elettorato di questa ambiguità, ora più che mai un agente corrosivo per le strutture del partito, in un momento cosi delicato. Sembra che ancora una volta il Pd stia volando in alto, in un mondo a parte troppo distante dalla realtà dei fatti, dalle voci e dalle esigenze dei suoi elettori. E la linea che sta andando per la maggiore è quella del “se io fossi, allora…”, come diceva il poeta Angiolieri sette secoli or sono. In particolare mi ha colpito una dichiarazione del parlamentare Piero Fassino: “Se fossi un lavoratore della Fiat – ha detto l’ex ministro a margine della riunione delle segreterie regionale e torinese del Pd svoltesi a Torino – voterei si all’accordo, ma l’azienda deve avvertire la responsabilità di compiere atti per favorire un clima più disteso”. Non si fa attendere la replica del segretario generale Fiom Maurizio Landini, secondo il quale “è legittimo che ognuno esprima il suo pensiero. Ma sarebbe utile che la politica prima di parlare di certe situazioni provasse a fare lo sforzo di mettersi nel punto di vista di chi deve lavorare, a mettersi nei panni di chi sta nelle catene di montaggio in certe condizioni, senza diritti e sotto ricatto per 1300 euro al mese”. Già, peccato che Piero Fassino non sia un operaio, ma un “dirigente di partito” per professione, come cita la sua scheda informativa di parlamentare; e siede in parlamento da cinque legislature, alle condizioni ed ai ritmi di lavoro che tutti conosciamo (vero?). Peccato che pochi, davvero pochi dei nostri rappresentanti abbiano esperienze di questo tipo. Non deve avere un’idea chiara di come si viva da operaio nemmeno il segretario del Pd Bersani, secondo cui “gli investimenti sono assolutamente prioritari, l’utilizzazione degli impianti piena è assolutamente prioritaria; però qui c’è una terza cosa, che riguarda un effetto di sistema, cioè il sistema delle relazioni sindacali e della partecipazione dei lavoratori e credo che non sia possibile che una palla di neve diventi una valanga per tutto il nostro sistema senza che nessuno ne parli: le grandi organizzazioni sociali e, perché no, governo e parlamento, perché qui si parla di sistema”. In altri termini: per prima cosa si deve massimizzare la produzione e, con essa, il profitto dell’azienda, attraverso investimenti strategici mirati a tale scopo. E alla fine, guarda caso, tocca combattere anche con le relazioni sindacali, la partecipazione dei lavoratori all’impresa, e (perché no?) agli “effetti collaterali” che possono derivarne. A chi vogliono parlare questi leader, e quali italiani stanno ascoltando? Continua Fassino, aggiungendo che nel caso di un eventuale no all’intesa nel referendum, “quelli che pagherebbero sarebbero solo i lavoratori, perché l’azienda potrebbe trasferire la produzione negli Stati Uniti o altrove”. Quest’ultima affermazione mi ha lasciato perplesso per almeno due motivi. Intanto vorrei chiedere a Fassino perché Fiat dovrebbe decentralizzare la produzione proprio negli Usa, dal momento che un operaio della Chrysler guadagna 48 dollari l’ora; in secondo luogo vorrei fargli notare che il suo timore (di per sé fondatissimo!) arriva un po’ in ritardo sui tempi, visto che il Lingotto ha già ampiamente pensato a trasferire la produzione dove più conviene, dal momento che in Italia si produce solo il 30% del totale, e che anche il best seller “nuova 500” è un prodotto polacco; e non bisogna dimenticare che, in virtù del nuovo matrimonio tra Fiat e Chrysler, alcuni modelli venduti ora con i marchi Chrysler e Dodge verranno sfruttati come base per futuri ampliamenti della gamma del marchio torinese, con palesi risparmi sul piano dello sviluppo e dell’ingegnerizzazione. Insomma, il marchio è italiano e i profitti pure, il lavoro solo un poco. Fiat è l’unica casa europea ad aver delocalizzato cosi tanto la produzione, più delle tedesche e delle francesi (che pure producono all’est, ma in misura minore). E davanti a tutto ciò, il principale partito della sinistra italiana si limita ad assumere una posizione accomodante. Perché nessuno invece parla di un’inversione di rotta, di portare non solo i capitali, ma anche la produzione in patria? Eppure gli incentivi statali ci sono stati, e si sono fatti sentire. Si potrebbe parlare di collegamenti preferenziali tra il mondo dell’università e l’industria automobilistica. In Italia nascono ingegneri, designer che raggiungono la fama altrove, soprattutto in Francia e Germania. Si potrebbe sottolineare che, se cosi tanti padri di famiglia perdono il lavoro in territori dove il confine tra Stato e anti-Stato è pericolosamente labile, diventano potenzialmente manodopera in mano alla criminalità organizzata. Si potrebbe parlare di un rilancio dell’economia dal basso, dall’aumento dei consumi che anche quest’anno, invece, restano al palo. Perché non bastano venti euro al mese per far progredire economicamente una famiglia. Ma questo, forse, i nostri parlamentari non lo sanno, e come potrebbero del resto? Voglio allora condividere un’idea apparsa oggi sul blog di beppegrillo.it. Più una provocazione che un’idea realizzabile, come è nello stile del comico genovese, che ora però appare più che mai azzeccata. Gli inglesi la chiamano “job rotation”, e consiste nello scambio periodico delle mansioni, attraverso più livelli, all’interno di un’azienda; questa tecnica consente di acquisire uno sguardo più ampio ed un approccio più versatile e consapevole al proprio lavoro. Proprio quello di cui la nostra classe ha, da troppo tempo, un disperato bisogno.