Misteri d’Italia: la strage dei carabinieri di Alcamo Marina
Non hanno cambiato atteggiamento nemmeno davanti ai giudici della Corte di Appello di Reggio Calabria, due dei quattro carabinieri finiti indagati pochi mesi addietro dalla Procura di Trapani per le «torture» inflitte ai giovani costretti ad autoaccusarsi nel 1976 della strage della casermetta di Alcamo Marina dove furono uccisi i carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Per questo duplice omicidio al termine di un interminabile iter processuale furono condannati tre alcamesi, giovanissimi all’epoca, Giuseppe Gulotta, all’ergastolo, a pene attorno ai vent’anni Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, da tempo «riparati», in Brasile, in carcere si suicidò un altro alcamese, poche settimane dopo l’arresto (avvenuto a un mese dalla strage), Giuseppe Vesco, di tumore è morto un altro dei condannati, Giovanni Mandalà di Partinico. Fu Vesco a chiamare in causa gli altri tre, Gullotta, Ferrantelli e Santangelo firmarono verbali di confessione, al contrario di Mandalà che non firmò alcun verbale, subendo lo stesso le torture per indurlo a confessare. Gulotta, Ferrantelli e Santangelo ritrattarono poi le autoccuse, sostenendo, non venendo mai creduti, di essere stati torturati dai carabinieri. Vesco nel frattempo moriva suicida in carcere, sebbene monco della mano destra era riuscito ad impiccarsi dentro la cella, anni dopo saltò fuori un suo appunto, c’era scritto «se mi trovano ucciso mi hanno sucidato».
Tutti sono rimasti non creduti fino a quando un ex appartenente alla squadra di investigatori, il brigadiere napoletano Renato Olino due anni addietro non è venuto a raccontare alla stampa prima ed ai magistrati dopo che le torture erano vere e che quei quattro con la strage non c’entravano nulla. Sono saltati fuori i nomi dei carabinieri che avrebbero commesso le torture. Sono i testi citati adesso dalla Corte di Appello di Reggio Calabria davanti la quale si sta svolgendo il processo di revisione della condanna al carcere a vita inflitta a Gulotta che nel frattempo è tornato libero proprio per quanto è emerso dalle indagini della Procura di Trapani approdate davanti ai giudici calabresi. Gulotta, difeso dagli avvocati Cellini e Lauria, ha sempre detto di non avere mai ucciso nessuno.
Sulle torture ha indagato la Procura di Trapani, avvisando dell’ipotesi di reato Elio Di Bona, 81 anni, Giuseppe Scibilia, 70, Giovanni Provenzano 83, Fiorino Pignatella 63, davanti al pm Tarondo della Procura di Trapani si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, però nei loro confronti non ci sarà alcun processo, il reato è prescritto. Facevano tutti parte di una squadra comandata dal colonnello Giuseppe Russo, l’ufficiale dei carabinieri che indagando sugli appalti gestiti dalla mafia nel palermitano fu ucciso a Ficuzza, nel corleonese, dai sicari di Cosa Nostra, era il 20 agosto del 1977. All’epoca fu lui ad indagare sulla strage della casermetta di Alcamo Marina.
Davanti ai giudici calabresi per adesso sono comparsi solo in due dei carabinieri finiti sotto inchiesta e solo Giuseppe Scibilia ha parlato, poco, ha riferito di aver partecipato solo a parte delle indagini, ha confermato la presenza di Olino. L’altro teste, Pignatella, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Gli altri due verranno sentiti il 10 dicembre.
Sentito anche Vito Pizzitola, cognato di Gulotta. Ha ricordato che il congiunto fu fermato la sera del 12 settembre 1976, il verbale dell’arma invece fa risalire l’arresto alla mattina del 13 settembre, in quelle ore che non compaiono in alcun verbale sarebbero state commesse le torture per fare confessare Gulotta e tutti gli altri, portati in una sperduta casermetta tra Alcamo e Camporeale, a Sirignano.
Renato Olino era un brigadiere dell’antiterrorismo di Napoli. Quel 26 gennaio del 1976 arrivò con la sua squadra ad Alcamo perchè in un primo momento la strage della casermetta era stata rivendicata da un volantino delle Brigate Rosse. Ma poche ore dopo la diffusione di questo documento ne arrivò un altro, le «vere» Brigate Rosse dicevano che non c’entravano con quella strage e che comunque lo stesso «non avrebbero versato lacrime per quei due carabinieri».
Olino sentito sia dalla Procura di Trapani che dai giudici di Reggio Calabria ha ricostruito quei giorni ad Alcamo. «Non indagavamo su esponenti della criminalità, ma direttamente nell’ambito politico degli appartenenti alla sinistra extraparlamentare, andammo anche a perquisire a Cinisi la casa di Peppino Impastato». Fino a quando non arrivò il fermo di Vesco, trovato in possesso di armi riconducibili alla strage. Olino ha confermato che da quel momento in poi ha cominciato a nutrire dubbi sull’azione investigativa che veniva condotta, per poi arrivare ad assistere alle torture. «I quattro furono costretti a parlare facendo bere loro acqua e sale, o provocando scosse elettriche ai genitali, oppure fingendo finte esecuzioni, ho protestato per quei comportamenti ma non cambiarono linea di comportamento i miei colleghi ed allora mi allontanai dalla stanza». Olino ha chiesto scusa ai soggetti condannati: «Quando li vidi erano quattro ragazzini, Gulotta giovanissimo, aveva 18 anni, sembrava un pulcino bagnato».
A fine del 1976 Olino lasciò l’Arma. «Ero entrato animato dai migliori intenti di servire lo Stato, andai via nauseato anche per quello che aveva visto ad Alcamo». Nel tempo ha detto di avere tentato di raccontare che i condannati per la strage non c’entravano nulla. «Mi rivolsi ad un magistrato di Parma e ad un deputato radicale, chiesi di vedere anche un generale, ma il suo aiutante di campo mi disse che non valeva la pena dire più queste cose».
Rispondendo alle domande degli avvocati Pardo Cellini e Saro Lauria, del procuratore generale e dei giudici della Corte, Olino ha più volte ripetuto che Vesco, il primo ad essere fermato, «fu picchiato e seviziato e costretto a confessare, a fare i nomi dei complici, sdraiato su due casse con le mani ed i piedi legati, ad ogni diniego, giù acqua e sale».
Olino ha anche parlato della morte di Giuseppe Tarantola, 25 anni, alcamese. Morì nel febbraio del 1976 durante una sparatoria con i carabinieri. Si disse che era armato, che voleva uccidere i militari, che era pronto a compiere una strage. Secondo Renato Olino, però, si trattò di una messinscena per coprire le responsabilità del carabiniere che aveva sparato. Si disse che Giuseppe Tarantola era armato, «ma in realtà non lo era – ha detto Olino – fui io a collocare la pistola dopo la sparatori su ordine di un ufficiale, prima dell’arrivo del magistrato».
«Si stanno facendo grandi passi – ha detto l’avv. Lauria – per fare emergere la verità su una pagina molto buia del nostro sistema giudiziario».La Procura di Trapani ha riaperto le indagini sulla strage della casermetta e sta battendo una pista precisa, quella che ad uccidere i carabinieri fu un commando della struttura super segreta di Gladio. Secondo una ricostruzione fatta grazie alle rivelazioni di una fonte, che ha permesso nell’alcamese di trovare, tempo addietro, anche un arsenale di armi delle forze Nato al quale avrebbe attinto anche la mafia locale, i due carabinieri uccisi quel giorno di gennaio del 1976 avevano bloccato sulla strada di Alcamo Marina (una delle arterie che univa Trapani a Palermo) un furgone che non dovevano fermare, a bordo ci sarebbero state delle armi, e una “pattuglia” di Gladio. Loro non sapevano e non potevano sapere, e non dovevano scrivere nulla, quando ci provarono vennero fatti fuori dentro la loro stessa caserma, poi fu inscenata la strage, la porta d’ingresso con la serratura distrutta dalla fiamma ossidrica, i due carabinieri morti come se sorpresi nella notte, nei loro letti a dormire. Gladio sarebbe stata svelata moltissimi anni dopo, si raccontò che a Trapani si era installata solo sul finire degli anni ’80, e invece la presenza sarebbe da collocare a molti anni prima, proprio a quegli anni ’70, quando Stato e Mafia si incontravano nelle zone grigie del paese, dove si nascondevano anche uomini dei servizi deviati e della massoneria. Una realtà non del tutto smantellata, avrà cambiato solo stile, ma la sostanza è sempre la stessa, anzi oggi c’è una mafia che è stata legittimata a mettere propri uomini dentro gli apparati dello Stato che contano. Ma questa non è storia, è cronaca di questi giorni che qualcuno vorrebbe mai vedere scritta.
Ho trovato un articolo sulla strage di Alcamo Marina. Mi pare fantascienza, ma la ho copiata e ve la mando.
L’IPOTESI
SULL’AGGUATO ALLA CASERMETTA DI ALCAMO MARINA?
Quanto segue è tratto da una storia vera, ma intrisa di tanti misteri che, a prima vista, fanno pensare ad una trama inverosimile di un film di alto spionaggio.
Solo il tempo, forse, sta riuscendo a smascherare, in forma lenta e graduale, molti punti cardini che hanno determinato i veraci eventi e fatto cadere nell’errore, perfino, il giudizio definitivo dell’intera Magistratura.
Negli anni del 1960, per volere della NATO, l’Italia si preparava a coordinare alcuni punti strategici, in previsione di una eventuale invasione di espansione sovietica, dando all’organizzazione l’appellativo di “GLADIO”.
Partendo da questo punto cardine, sembrerebbe assodato che l’intera vicenda abbia avuto altri apparenti comuni denominatori. Questi potremmo considerarli indissolubili nella disorganizzazione disgregativa e per quanto contrastanti, tra loro, nell’ intera odissea che ha avversato la pura missione GLADIO.
Accanto alla NATO, dalla cui giurisdizione nasce in Italia GLADIO. Nel suo seno si sviluppano, nel più assoluto riservo, interessi di suprema importanza cautelativa per le più basilari forme democratiche della nostra Patria. Erano formule essenziali la segretezza e la diligente perseveranza dell’oculare con ogni meticoloso interesse comune, per come si coordinava sull’intero suolo italiano.
La gestione viene affidata ad alti graduati militari, esperti ad offrire la massima fiducia e capacità coordinativa. A loro volta si affiancavano civili, scelti meticolosamente con doti particolari.
Era pur logico che nessuna azione poteva essere coordinata priva dell’assenso del nostro Ministro dell’Interno. A ragion di logica, questo organo statale, di per se, a priori, confermava un punto vulnerabile per potere assicurare e custodire perfettamente l’esistenza, in segreto, della costituita GLADIO, Lo si deduce per il fatto che un Ministero è coordinato da molti funzionari che si esplicitano, in campo personale, con diversa ideologia politica.
Avendo effettuato le dovute indagini in forma pedante ed accurata si è scartata alcuna ipotesi che dal ruolo degli alti rappresentanti militari fosse potuto sfuggire la benché minima illazione.
Nell’ambito militare si venne a creare una vasta rete di uomini che potevano per uno dei mille motivi far scappare qualche argomentazione sui procedimenti pratici in atto.
Si riferisce il quanto, poiché, per fondati accertamenti, dei quali si cela la vera sostanza delle indagini, si vennero a trovare, misteriosamente, coinvolti, sia pure con lo spirito apparente di difendere i destini della Patria, i servizi segreti deviati, logicamente non concordi, quindi contrastanti, con la genuina struttura che confermava gli ordini della NATO con GLADIO.
Per tali coinvolgimenti si ha un assetto disorganizzativo che tende a spiare GLADIO, quindi i veri servizi segreti dello Stato italiano, poiché subentrarono delle cellule politiche, sia di estrema destra che di estrema sinistra.
Per come è assolutamente certo, si conosce, sin dai tempi più lontani, che nel nostro coordinamento politico è stata sempre vigile l’attività di vari ed occulti servi della mafia. Negli anni del 1960 e settanta era particolarmente attiva l’intera piovra dell’organizzazione malavitosa meridionale. Essa emergeva in seno alla MAFIA siciliana.
È proprio la MAFIA siciliana che, avvertendo la sensazione del movimento di armi da parte della GLADIO, inizia ad interessarsi coinvolgendo, con la loro paura, civili e militari prestanti la propria opera di volontariato, presso GLADIO.
Avendo presentato lo sfondo di una intera azione, a questo punto, osservando vari ideali e mire criminali, ci troviamo coinvolti nell’azione criminosa del 26 gennaio 1977 e più esattamente ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Ivi, in una casermetta, sarebbero stati uccisi due Carabinieri: l’appuntato Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo.
A distanza di circa un ora il comando Carabinieri dui Alcamo riceve la rivendicazione di un fantastico e mai conosciuto “Nucleo Sicilia Armata”.
Da questo momento iniziano mille forme di depistagli che s’intrecciano a tal punto da dovere sospettare sulla stessa opera conseguita dagli stessi Carabinieri che svolsero le indagini, con a capo l’ufficiale Carabiniere Giuseppe Russo, capitano del nucleo operativo di Palermo e fido collaboratore del Generale Dalla Chiesa. (Si stia bene attenti su questi particolari, poiché, in tempi diversi, sia il capitano Russo promosso Colonnello che il generale Della Chiesa, nella qualità di Prefetto di Palermo, vennero uccisi dalla mafia).
Qui non s’intende seguire la pista esposta in forma ufficiale, ma si preferisce connettersi su ben più chiari presupposti, conseguiti da ipotetici ulteriori indagini di carattere estremamente segreto, per cui si taceranno particolari e nomi.
Il 25 gennaio 1976, intorno alle ore 23,45 due militari in borghese, sotto la stretta autorità della NATO, all’ordine del colonnello …., a bordo di un furgone civile di colore scuro, con l’ordine di servizio di scortare, da Palermo ad una località segreta della provincia di Trapani, armi da guerra e munizioni. Forse ci sarebbe stata una seconda automobile di scorta che seguiva a distanza.
È certo che una telefonata anonima (da parte della mafia) avvertiva i due carabinieri di Alcamo Marina, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, comunicando che da li a poco sarebbe passato un furgone trasportante delle casse, forse, contenenti della droga. La telefonata fu intercettata da Salvatore Falcetta che ne diede immediata comunicazione al Comando Compagnia di Alcamo.
Quindi, i due carabinieri, sotto battente pioggia, si portarono sulla statale Palermo-Alcamo ed attesero l’arrivo del mezzo segnalato.
Fermatolo chiesero i documenti del conducente e del mezzo viaggiante.
Fu a questo punto che i due Carabinieri, Falcetta ed Apuzzo furono raggiunti da colpi mortali di arma da fuoco, cadendo esanimi.
Furono uccisi, anche, gli altri due occupanti del furgone.
Ad agire era stata la mafia.
Il commando di questa si divideva, alcuni allontanandosi con il furgone carico di armi, mentre altri si accingevano a caricare i due carabinieri, portandoli presso la loro Caserma. Fu scassinato il portone blindato con una fiamma ossidrica, qualcuno salì per prendere dei vestiti asciutti che intrisero di sangue e riportarono i due cadaveri in modo da dovere apparire uccisi di sorpresa.
Da un confidente della mafia di Alcamo si conoscerebbero particolari che mettono in risalto le gravi minacce fatte a militari dell’Arma dei Carabinieri di Alcamo, costretti a dire quello che era stato loro intimato, pena l’uccisione dei propri cari.
I militi, pur di salvare la loro vita e quella dei loro familiari dovettero sostenere un ben congegnato stratagemma che avesse portato fuori strada, così come congegnato dalla mafia.
Da qui la falsa storia di avere trovato Giuseppe Vesco, di Alcamo, su una FIAT con una pistola in mano e che successivamente, a seguito della perquisizione, fatta nella sua casa, di averne rinvenuto una seconda pistola, la stessa usata per gli omicidi dei due carabinieri. Anche il ritrovamento delle divise era frutto dello stratagemma, poiché il Vesco, monco di una mano, era assolutamente estraneo ai fatti. La perquisizione e l’arresto del Vesco sarebbero avvenute un mese dopo il doppio omicidio dei carabinieri.
Le indagini proseguirono con la personale attenzione del Colonnello Giuseppe Russo, al quale furono presentati tutti i depistagli.
Il colonnello era venuto a conoscenza della sparizione dei due conducenti il furgone, con assieme le armi, ma gli era stato imposto il silenzio al fine di non mettere in pericolo lo svolgimento delle azioni promosse da GLADIO. Gli restava solo il dovere di trovare, a qualsiasi costo, le armi e quindi gli autori dei delitti dei due carabinieri.
Il Colonnello Russo, volle credere sinceri i suoi operatori e li lasciò con carta libera, pur di arrivare al suo fine. Costoro sapevano che solo con le estorsioni avrebbero potuto ottenere dei nomi, anche se falsi, quindi seguitarono con il confermare delle sevizie degne della Santa Inquisizione.
Sarebbero stati estrapolati, a caso, il nome di quattro giovani di cui due minorenni, facendo verbalizzare, al Vesco, estenuato dalle sevizie un verbale estorto. Furono accusati con lo stesso metodo Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli, SUBENDO PENE VARIE DAI VENT’ANNI ALL’ERGASTOLO.
Mafiosi pentiti e Carabinieri di alto onore hanno sofferto nel silenzio una barbara rappresaglia che promosse con le stesse armi un interminabile seguito di omicidi mafiosi.
Nel 2007 Renato Olino, ex brigadiere della Benemerita Arma dei Carabinieri, confermò la sua testimonianza che aveva tenuto in riservo per quasi trent’anni, per paura che lo avessero ucciso o fatto del male ai suoi familiari.
Il Colonnello Russo aveva intuito la trama ed in grande riservo seguiva nuove piste per incastrare gli autori autentici ed i mandatari dell’uccisione dei due carabinieri e quindi di chi si fosse impossessato delle armi.
Si sostiene che fu questo il motivo per cui il capo mafia lo fece uccidere accanto all’insegnante Filippo Costa con il quale passeggiava presso il bosco della Ficuzza. Era il 20 agosto 1977 –
Lo stesso generale della Chiesa avrebbe conosciuto questa versione dei fatti e si prefisse di vendicare la triste storia, così come si suppone essere avvenuta e qui descritta. Volle combattere con più impeto la mafia, dalla quale era stato abbondantemente minacciato. Mafia che si era infiltrata, perfino, negli uffici della Prefettura di Palermo. Così fu che lo eliminarono con i colpi di un mitra, forse uno dei tanti trafugato tra le armi della descritta vicenda. Era 03 settembre 1982.
Fu lo stesso commando dei mafiosi che soppresse il valoroso Colonnello Giuseppe Russo che in data 4 maggio 1980, in pubblica piazza, durante i festeggiamenti del Patrono di Monreale, uccisero spietatamente il Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, comandante la Compagnia di Monreale. Teneva in braccia la sua piccola figliuola, passeggiando accanto alla moglie, in occasione della festa del Patrono. Quest’ultima si sarebbe salvata grazie ad una medaglia d’onorificenza del marito che conservava in borsa.
La presente trattazione non assume alcuna responsabilità sulla veridicità o meno dei fatti riportati, poiché pervenuti solo a titolo informativo da sfoghi ed opinioni di pubbliche illazioni.
[…] Misteri d’Italia: la strage dei carabinieri di Alcamo Marina, Rino Giacalone, http://www.malaitalia.it, 14 novembre […]