Da Gioiosa Jonica a Torino, per morire di lavoro
(di Domenico Logozzo)
È un dovere umano, sociale e culturale ricordare persone eccezionali e fatti straordinari che il silenzio colpevole tende a cancellare impietosamente dalla storia dei calabresi emigrati negli anni bui del dopoguerra. Povertà e disperazione. Voglia di riscatto e sfruttamento bestiale. Vite spezzate. Morti tragiche, gravi mutilazioni. I cantieri insicuri, trappole pericolose. Si andava via dalla propria terra spinti dalla fame, alla ricerca di un lavoro per sopravvivere e purtroppo si finiva spesso sotto terra. Quante giovani esistenze stroncate! Quante illusioni finite male! Il “libro nero del lavoro che uccide” è pieno di drammi calabresi. Non solo ‘ndrangheta, non tutto è ‘ndrangheta ciò che l’estrema punta dello stivale ha dato al Settentrione. È una mostruosa falsità voler generalizzare. Ci sono tanti odiosi luoghi comuni e pregiudizi da sfatare ancora oggi. Altro che illegalità diffusa. Si deve avere invece l’onestà intellettuale di riconoscere che tante braccia ed intelligenze meridionali hanno costruito la fortuna delle aree economicamente più forti della Penisola. Umili e onesti lavoratori, uomini di cultura illuminati hanno sofferto e lottato per un futuro migliore, per l’Italia unita, contro l’Italia spaccata dai soprusi e dalle ingiustizie che penalizzano il Mezzogiorno.
Il Sud e gli oscuri piccoli-grandi eroi che vanno ricordati con gratitudine e ammirazione da tutti gli italiani. E soprattutto dalle giovani generazioni calabresi, che debbono sapere e capire quello che hanno subito i nostri emigranti, “quando gli albanesi eravamo noi”. Abbiamo perciò fatto un tuffo nel passato, entrando nell’archivio storico della “Stampa” di Torino. Rileggiamo assieme alcune storie, partendo da quella pubblicata il 28 luglio 1949. Protagonisti due ragazzi giunti a piedi dalla Calabria e trovati svenuti per strada dalla polizia di Torino. Cronaca della disperazione, della speranza e della delusione: “Il carrozzone della Squadra Mobile che ogni notte, carico d’agenti, compie giri di controllo per le vie cittadine è stato sul punto la scorsa notte d’investire due ragazzi, che giacevano a terra, in uno dei punti più oscuri di via Petrarca. L’automezzo proveniva da via Nizza e i giovani si trovavano distesi sull’asfalto, uno vicino all’altro. Il fischio della sirena non li svegliò; rimasero nella posizione di prima senza neppure aprire gli occhi. Allora un agente discese e si avvicinò a loro. Il fatto aveva sorpreso tutti: che i ragazzi fossero già stati investiti? Avevano gli abiti ricoperti di polvere, sul loro viso pallido ed estenuato si notavano le tracce del sudore della polvere della strada. Sembravano assorti in un sonno profondo. La mano ruvida dell’agente si posò sulla spalla di uno dei due, quello che sembrava più alto. Lo scosse un poco e lo chiamò: «Sveglia, giovanotto, sveglia». Il ragazzo aprì gli occhi, il suo sguardo, pieno di malinconia e di timore, si fissò a lungo sulla divisa, poi, con un filo di voce, mormorò: «Ho fame, non ne posso più».
Ormai tutti gli agenti erano discesi dal carrozzone e si erano stretti ai due giovani che si erano destati dal torpore del sonno ma non potevano rialzarsi nè muoversi. Compreso che si trattava di due poveretti digiuni e sfiniti da un lungo cammino (le loro scarpe informi e tutte bucate erano una prova eloquente) furono caricati sull’automezzo e trasportati in questura. Qui venne chiamato subito un medico, e, ricevuta da lui l’autorizzazione diedero ai ragazzi qualcosa da mangiare. Quindi li lasciarono dormire. Solo stamattina, quando si svegliarono, un poco ristorati, furono ricevuti da un funzionario, che li interrogò per conoscere i loro nomi e per sapere quali vicende li avessero portati ad accasciarsi svenuti in via Petrarca. Si chiamano Armando e Raffaele De Martino e hanno rispettivamente 14 e 15 anni. Partirono circa due mesi fa da Gioiosa Jonica, in Calabria, per andare a Roma e di là venire a Torino, dove sapevano di avere uno zio. Nel loro paese — essi hanno dichiarato — ove non potevano più abitare perché — orfani di genitori — avevano soltanto più lontani parenti.
Essi intendevano invece vivere con lo zio, che aveva promesso di farli impiegare nella nostra città. Lasciarono quindi Gioiosa Jonica e, a piedi, risalirono tutta la penisola, peregrinando di città in città, di paese in paese, chiedendo la elemosina, mangiando solo quando potevano trovare qualcosa, rubacchiando magari qua e là nel campi e nei frutteti. Ed infine ieri mattina raggiunsero Torino da Moncalieri. Si fermarono quasi tutto il giorno nel pressi delle Molinette, domandando, ingenuamente, a molte persone se per caso conoscevano un certo Alicante De Martino, operaio, loro zio. Cosi continuarono fino a tarda sera quando ormai stremati si accasciarono in via Petrarca. Risultate vane le ricerche dello zio Alicante la polizia farà trasferire questa sera stessa i due ragazzi al loro paese. Si concluderà cosi, tornando al punto di partenza, la loro dolorosa avventura durata due mesi”.
Quanta tristezza scorrendo queste righe e quanta rabbia nel leggere un’altra amara storia di emigrazione pubblicata il 9 settembre 1955. Tragedia del lavoro. Un titolo che fa rabbrividire: “Un muratore piomba dal settimo piano e si sfracella a due passi dal fratello”. Il cronista dell’epoca racconta così la terribile fine di un lavoratore calabrese a Torino: “Un muratore precipitando dal settimo piano si è sfracellato nel cortile della casa in costruzione in via Tripoli 148, davanti agli occhi del fratello. Il muratore morto si chiama Nicola Borzomì, il fratello Rocco: di 39 anni il primo, di 41 il secondo. Da tempo vivevano a Torino lavorando alle dipendenze della Impresa Luigi Graglia e non avevano dimora fissa. Per risparmiare i soldi della pensione dormivano nelle baracche del cantiere. Le famiglie le avevano al paese, a Gioiosa Jonica, in Calabria. Nicola Borzomì, il morto, aveva moglie e quattro figli: 14 anni il maggiore, 3 il minore. E mercoledì sera aveva spedito i denari dell’ultima busta paga. La sciagura e avvenuta alle 16.30. I due fratelli erano addetti al montacarichi. La casa ha sei piani fuori terra. Il montacarichi ha una propria incastellatura di legno che si innalza parallela alla parete dello stabile dalla parte del cortile e la piattaforma dove si snoda il braccio mobile dell’argano, è un piano superiore, all’altezza del tetto. Il motore è al basso e ieri lo manovrava Rocco Borzomì.
Alle 16,30 Rocco Borzomì disse all’assistente che il montacarichi non funzionava bene. «Mi pare che il braccio lassù sia debole e ceda». L’assistente stette a guardare e poi chiamò Nicola che, per la sua esperienza, aveva l’incarico delle riparazioni. “Prendi una sbarra o una trave, vedi tu, e va a rafforzare quel braccio prima che succeda un incidente».Nicola Borzomì salì sino al culmine della incastellatura di legno, esaminò il braccio, constatò che era necessario legargli un sostegno ed allora gridò al fratello, rimasto nel cortile, di non mettere in azione il motore. «Aspetta che te lo dica lo» gli disse. Rocco si sedette su una pila di mattoni, si tolse di tasca il pacchetto del tabacco, la bustina delle cartine e si arrotolò la sigaretta. Nessuno sa perchè Nicola Borzomì perdette l’equilibrio. Si pensa che si sia sporto troppo in fuori per misurare la lunghezza del braccio mobile del montacarichi. Un urlo fece alzare gli occhi a Rocco, all’assistente, a due altri muratori. Nicola, dopo un salto di alcuni metri fu pronto ad afferrarsi al cavo con le due mani, ma il suo peso non gli permise di fermarsi: le mani scivolavano lungo le trecce d’acciaio coperte di grasso. Lo si vide che tentò di aiutarsi con il corpo stringendosi con l’incavo della spalla destra e con le ginocchia. Ma invano. Scivolava sempre, e sempre con maggiore velocità. Lungo la corda metallica lasciò la carne delle mani, il sangue che sgorgava dalle ferite, lembi di camicia e di calzoni. Il bruciore atroce fu più forte della sua resistenza. Mollò la presa, vinto, e cadde. Si schiantò a due passi dal gruppo che aveva assistito terrorizzato. Tutta la tremenda scena si svolse nel giro di quindici-venti secondi. Il fratello Rocco si precipitò sul corpo insanguinato gridando: «Ti ho ucciso io» e non si dava pace di essere stato lui a farlo andare lassù a riparare il guasto. Non si staccava dal corpo inerte di Nicola. Lo allontanarono a forza mentre smaniava fuori di sè. In via Tripoli passava un’auto: la fermarono e vi misero su il muratore morente. Giunse al Mauriziano alle 17, dieci minuti dopo spirava”.
Vittime del lavoro. Un lungo elenco. Una scia di sangue che ha provocato tanti lutti nelle famiglie calabresi. Fatti agghiaccianti. Questo è accaduto il 9 aprile 1957: “Nel cantiere edile di corso Mediterraneo, all’altezza di via Giovanni da Verrazzano, ieri pomeriggio un giovane muratore, Giovanni Maggio, di 19 anni, abitante in via San Massimo 40, é stato orrendamente sfracellato in un infortunio sul lavoro. Erano circa le 14,30 ed il Maggio si trovava al secondo piano, era inginocchiato e sporgeva il capo fuori della impalcatura. Si trovava vicino alla incastellatura metallica dentro alla quale correva il montacarichi. Evidentemente non si era accorto che il carrello stava scendendo e nessuno neppure lo vide in tempo per avvertirlo: la piattaforma lo colpì al capo e gli schiacciò la faccia contro una trave di ferro messa di traverso. Il suo volto fu aperto appena sotto gli occhi, il naso frantumato, il mento ridotto in pezzi. Subito accorsero i compagni di lavoro che lo liberarono dalla stretta orribile e lo trasportarono al Mauriziano. Le sue condizioni erano disperate ed il prof. Solero, con l’assistenza dei dottori Bocca e Ferrero, lo ha sottoposto ad un intervento di tre ore. Il sanitario non si è pronunciato sulla prognosi. [Oggi negli archivi del comune di Gioiosa Jonica risulta deceduto per “incidente sul lavoro”].
Il Maggio è immigrato da Gioiosa Jonica. Nello stesso cantiere lavorano tre suoi fratelli: Giuseppe di 22 anni, Franco di 27 anni, Piero di 33. Un quarto fratello, Rocco di 30 anni, è occupato in un altro cantiere, sempre a Torino. Domenica sera, dal paese, era arrivato il più giovane della famiglia, Salvatore, appena quattordicenne. Giovanni Maggio, quello che ieri si è infortunato, è stato protagonista di un caso clamoroso di morte apparente. Sette anni fa, a Gioiosa Jonica, tutti i fratelli erano ancora insieme con i genitori, Giovanni fu colpito da polmonite e dopo alcuni giorni il medico affermò che era morto. Aveva 12 anni. I parenti erano costernati. Recitarono alla sera il Rosario, fu fissata l’ora dei funerali, arrivò in casa un vicino che provvide a vestire la salma con gli abiti belli. Poi i necrofori portarono la cassa. Il medico aveva dato il nullaosta per la sepoltura ed i necrofori avrebbero voluto adagiare il corpo nella cassa, ma il vicino che lo aveva vestito li pregò di ritardare perché era ancora un po’ caldo. C’era tempo per i funerali ed i necrofori accondiscesero. La madre, disperata, accarezzava il volto del suo ragazzo e gli stringeva le mani, a cui era intrecciata la corona del Rosario, e su di esse si chinava a piangere sconsolata. Poi i necrofori dolcemente la scostarono per prendere il corpo e metterlo nella cassa, ma li trattenne una grande sorpresa; le mani del ragazzo si apersero lentamente e cadde la corona del Rosari. Tutti guardarono sbalorditi: le braccia caddero lungo i fianchi ed il «morto» sbarrò gli occhi, mosse le labbra e mormorò: “Mamma, dove sono?”
Queste storie ci ricordano dunque il difficile e tortuoso cammino dell’emigrazione calabrese nel Settentrione. Integrazione, solidarietà, rispetto della persona umana, sicurezza sui luoghi di lavoro. Sono tutti problemi da affrontare con serietà e intelligenza, per realizzare il “mondo migliore” nei sogni dei nostri emigranti, tanto auspicato oggi dalle persone buone e giuste che operano per una serena convivenza con gli immigrati che lavorano onestamente nelle nostre città e nei nostri paesi. No al razzismo e no all’intollerabile pregiudizio che purtroppo hanno dovuto subire e in alcuni casi continuano a subire i meridionali.
(pubblicato su La Riviera del 14 novembre 2010)