Un no che ti spegne la vita
“Assassinato perchè non si è voluto piegare alla ‘ndrangheta”. Titolavano così i giornali in quel lontano settembre del 1996. Quattro uomini gli spararono contro, concludendo la loro esecuzione con un colpo di grazia.
Un imprenditore di 49 anni riverso a terra, in un paesino di poche anime in provincia di Reggio Calabria, Varapodio. Padre di sei figli, il più piccolo di pochissimi mesi, ha continuato a dire “no” ai tentativi di estorsione mafiosa. E la ‘ndrangheta ha deciso di piegarlo con la più estrema delle azioni: l’omicidio.
Nino Polifroni ha speso una vita in sacrifici e stenti per portare avanti la sua creatura, un’azienda edile. Nel 1974 si trasferisce, con moglie e figli, nella casa che lui stesso aveva costruito.
Fu quello l’anno in cui prende vita il suo incubo. Si aspettava un avvertimento, e presto arrivarono le prime telefonate. Dalla parte opposta della cornetta, un uomo con forte accento calabrese chiede del denaro. Nino corre a denunciare il tentativo di estorsione. E così continuerà a fare per tutti i lunghi venti anni nei quali sarà sottoposto a questo stress continuo.
In terra di mafia non puoi permetterti troppa libertà. “La tua libertà finisce dove inizia quella dell’altro”. Lo ha insegnato Voltaire. Ma in Calabria non è così. Quello che è permesso alla ‘ndrangheta neppure allo Stato è dato. È una “libertà” invasiva, violenta che si trasforma in oppressione.Nino Polifroni era una persona particolarmente testarda e coraggiosa. Voleva affrontare a tutti i costi quelle persone. Si presentava agli incontri, ma nessuno si faceva vivo. Nella valigetta non portava con sé il denaro. Solo fogli di giornale. Ostentava il suo secco “no” alla ‘ndrangheta.
La reazione non fu altro che violenza. Fucilate contro la porta di casa; contro le finestre. Bicchieri, vetri, piatti disintegrati. Automezzi da lavoro incendiati, minacce telefoniche. Per molti anni fu il terrore.
Secondo Nino non avrebbero mai agito contro la sua persona. Si sbagliava.
Il 30 novembre del 1992, di ritorno da lavoro con il figlio Gianpiero, si ferma davanti all’ingresso di casa. Il figlio prosegue verso il cantiere dove avrebbe lasciato l’autobetoniera con cui viaggiavano. Nino, invece, suona il campanello della sua abitazione, pronto per la cena in famiglia.
Il silenzio serale di Varapodio viene rotto dal frastuono di un’arma da fuoco. Alcuni pallini da caccia esplosi da un fucile lo feriscono gravemente. Rischia di perdere la vista.
La ‘ndrangheta si fa sentire così. È questa l’espressione del suo potere, della sua “libertà”.Dopo molti anni si viene a conoscenza della verità sull’attentato. Era il 1996. Un mese prima della sua morte, Nino, venne avvicinato da alcuni compaesani, che gli riferirono l’identità del suo attentatore. Perchè solo dopo quattro anni? La paura dei cittadini di Varapodio era svanita? L’omertà finalmente sconfitta? No. Proprio pochi giorni prima l’attentatore era morto, ed ormai non avevano più nulla da temere. Nel 1998, dopo due anni dalla scomparsa di Nino, fu consegnato al figlio Bruno un fascicolo di atti giudiziari. La famiglia Polifroni ebbe la conferma che tutto il paese era a conoscenza dell’autore di quel gesto estremo. Soltanto loro erano all’oscuro di tutto.
I mesi successivi a quel 30 novembre del 1992 furono mesi pieni di terrore e di paura. Scortati e vigilati notte e giorno, Nino e i suoi figli si recavano con il giubbotto antiproiettile in cantiere. Uno stato di terrore costante. Continuarono le minacce, le telefonate, le lettere minatorie.
Nel 1996 la strategia della ‘ndrangheta cambiò. Mutano le richieste di estorsione. Non c’è più un filo diretto fra ‘ndranghetista e imprenditore. Le modalità ora sono subdole e celate. Si stabiliscono meccanismi che falsano il mercato. Non esiste più la libera concorrenza, fare impresa viene reso impossibile. La libertà economica non regna più nel territorio calabrese. Una forma di estorsione legalizzata, con emissione di fattura e con tasse regolarmente pagate.
Il costo di un opera per alcuni è minore, per altri molto, molto più cara. Si va ad incidere sulla materia prima, che viene pagata ad un prezzo inferiore. Ed è così infatti che a Nino fu imposta la fornitura di mattonelle da un’azienda in particolare. Alla consegna urlò senza paura: “Dì al tuo padrone che non ho mai accettato estorsioni e neppure adesso”. Furono queste le parole che segnarono la sua fine.
Una vera e proprio esecuzione. E’ il 30 settembre 1996.
Sostegno e solidarietà arrivarono da parte dei concittadini, gli stessi che per quattro anni non vollero ammettere le loro conoscenze sull’attentato subito dall’imprenditore.
Bruno, figlio maggiore di Nino Polifroni, ancora dopo diversi anni, porta con sé rabbia, tristezza e due grosse delusioni. La prima è venuta dalla magistratura. “Il caso fu assegnato ad un magistrato che si concentrava su piste sbagliate. Più volte cercai di fargli capire le mie ragioni”. Interrogò la moglie di Nino più e più volte, sottoponendola ad una sofferenza maggiore di quella che già stava provando. Durante un interrogatorio il figlio decise di portarla via a forza, rischiando una denuncia.
Anni dopo fu lo stesso Bruno ad essere sentito dai Carabinieri. Gli rimproverarono di non aver aiutato le istituzioni per la ricerca degli assassini di suo padre. Ma fu proprio lui a cercare di indirizzare le indagini verso la verità. Altro non poterono fare se non dare ragione a Bruno, chiedendo scusa a nome dello Stato. Uno Stato assente, distratto e, nel peggiore dei casi, connivente.
La seconda delusione derivò, invece, da quell’antimafia “che fa molto fumo e niente arrosto”. “Noi abbiamo fatto iniziative – continua Bruno – su nostro padre. Abbiamo creato un memoriale biennale, con una borsa di studio da assegnare alle classi medie inferiori del paese. Ogni biennio avvisiamo la stampa e le maggiori autorità della zona. Ma gli inviti sono spesso declinati”.
Non è sufficiente una lettera o un telegramma per spiegare le proprie assenze. In regioni come la Calabria bisogna andare oltre. Bisognare mandare segnali, bisogna essere presenti, la politica deve schierarsi, non può restare in quella zona grigia, mista di omertà e connivenza. “Loro partecipano a manifestazioni politiche, ma a quelle dell’antimafia vera no. Finché questo non cambia, qui non si sveglia nessuno”. Parole che rimbombano come un eco. Rimbalzano sui muri delle caserme, delle prefetture, delle questure, e ritornano indietro.
Ma la lotta di questa coraggiosa famiglia calabrese continua tutt’ora. Enzo, il secondogenito, porta avanti, insieme al fratello Leandro, l’azienda del padre. Si occupano di appalti pubblici. Uno dei maggiori interessi della mafia calabrese. “C’è qualcosa che ti fa lottare, ma è molto difficile. Oggi sto portando avanti un’opera importante sul territorio. Subisco attentati e si è comunque lasciati soli dalle istituzioni”. La voce di Enzo nasconde una grande paura. Pochi giorni fa ha subito un altro attentato nel suo cantiere. Era una domenica. Ha telefonato alle forze dell’ordine, che hanno preso tempo. “Chiameremo noi domani, oggi non abbiamo mezzi disponibili”. Enzo attende ancora quella chiamata.
“La nostra forza è portare a compimento il suo pensiero”, è questo che fa andare avanti Bruno, Enzo, Leandro, Giampiero, Nicoletta e Danilo. Sei fratelli che onorano, tutti insieme, il nome di loro padre. Un esempio di coraggio, di dedizione. In una Calabria ancora piegata dal giogo della ‘ndrangheta, l’esempio di queste famiglie smuove gli animi, bagna le palpebre, scalda il cuore. E dà a sua volta forza, coraggio, voglia di cambiare, anche a noi giovani, abitanti di un’Italia, quella del nord, che sembra così distante da quelle regioni, ma che sempre una e indivisibile è.
una sola cosa: grazie.
[…] This post was mentioned on Twitter by Andrea Bergamin, Malitalia. Malitalia said: Un “no” che ti spegne la vita – http://www.malitalia.it/?p=4354 […]