Miliziani del pallone
(di Francesco Perrella)
Un’immagine semplice, un simbolo molto significativo. Il simbolo del pantano morale in cui si sta inabissando lo sport, da noi ed altrove. O, se preferite, l’emblema del sonno della ragione, del buonsenso e del senso di civiltà. L’immagine è quella di un ragazzone sotto i trenta, nerovestito, volto coperto, le braccia arabescate di tatuaggi dai significati quasi esoterici; solo, fiero e spregiudicato, a cavalcioni sulla vetrata che divide la curva del Marassi dal campo, perso in uno sproloquio di gesti e urla dal sapore nazionalista (o nazista, sempre se preferite), ad incitare i millecinquecento ultrà serbi arrivati ieri a Genova; è l’immagine di Ivan Bogdanov, capo degli ultras della Stella Rossa, una delle due squadre della capitale: un comandante folle senza spada, armato di taglierino, alla testa di un esercito che non combatte per una ragione, ma per il puro piacere di urlare, destabilizzare, lasciare il segno, ma soprattutto fare paura.
Ora che l’onda anomala è passata, bisogna solo raccogliere i cocci, ripulire, e dimenticare ringraziando il cielo che questa volta “non ci è scappato il morto”. Restano i dubbi, quell’odore di paradosso che impregna vicende come questa, che accadono solo in un paese in cui ai bambini in fila, per vedere Roma-Lazio, viene requisita una bottiglietta d’acqua, mentre millecinquecento tifosi serbi possono portarsi dietro pinze, taglierini, bombe carta. Com’è possibile che nella città del G8 2001 siano bastati un manipolo di schegge impazzite a portare il caos più assoluto, in un clima di totale anarchia. Come è possibile che dopo tutte le promesse del ministro Maroni sul delicato, scottante capitolo “sicurezza degli stadi”, millecinquecento pregiudicati (sportivamente pregiudicati, si intende) siano stati ammessi in uno stadio, tra l’altro notoriamente a rischio sicurezza, senza il minimo controllo?
Ma anche se si trovassero tutti i colpevoli dei gravissimi fatti di Genova, resterebbe sempre, lì in fondo, lontano dai riflettori e spesso anche dalle coscienze dei più, l’interrogativo più grande: come si sia arrivati a conciliare la parola “stadio” con la parola “sicurezza”; come si sia potuti arrivare a provare paura per un luogo adibito al gioco. L’immagine dei poliziotti in tenuta antisommossa che entrano in campo al Marassi al posto dei giocatori ha lo stesso sapore delle immagini degli scontri di Catania del 2007, della strage dell’Heysel, dei cassonetti bruciati fuori dall’Olimpico alla fine di ogni derby. Difficile trovare vere cause alla base di questo annientamento del significato vero della sportività, intesa come momento di competizione leale, tra pari, momento emozionante per chi assiste, gioia di chi vince, voglia di rivincita di chi perde. Sono tante le parti in causa, ognuna con le sue responsabilità. Società sportive, federazioni internazionali, enti di gestione degli impianti, forze dell’ordine, tifoserie. E in tifoserie come quella della nazionale serba, il sentimento patriottico è deviato dal parassita del nazionalismo più estremo, che usa il calcio come mero veicolo di un messaggio perverso.
E quello che nel caso delle frange serbe accade su scala nazionale, scende fino nei piccoli club regionali: cambiano le dimensioni e di conseguenza gli effetti pratici, ma il sentimento resta lo stesso. Una scintilla che scatta al minimo attrito, poco importa si tratti tutto di un gioco. Misto di irrazionalità, immaturità, inciviltà. Specchio agghiacciante di una società sempre più individualista, che vede l’unione solo nello scontro. Nell’ambiente calcistico odierno c’è una totale mancanza di quei valori che sono alla base della civile convivenza, e da cui una competizione non può prescindere: buon senso, rispetto delle regole e degli avversari, osservanza del bene comune; e come infiniti esempi storici potrebbero dimostrarci, difficilmente valori che dovrebbero essere innati possono venir inculcati nel senso comune tramite leggi. E allora è assurdo combattere per un gioco, impiegare risorse in una lotta cosi atroce nella sua effimera violenza, a fronte di tante situazioni drammaticamente vere. Forse, anche se può sembrare una conclusione drastica, lo sport c’è, gli atleti sono preparati, il teatro mediatico è allestito alla perfezione, ci sono club e finanziatori: l’unica cosa che manca sono i tifosi. E allora, perché cominciare lo stesso lo spettacolo?
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