Intifada vesuviana

Terzigno off limits. Non si entra. Cumuli di monnezza, travi fradice, mobili vecchi e finanche un cesso fanno da barricata. Si deve cambiare strada, imboccare di nuovo la superstrada per Angri con le piazzole piene zeppe di rifiuti, bidoni, vecchi materassi e collinette di residui alimentari che marciscono all’aria, e uscire a Boscoreale. Qui i blocchi sono più pesanti. C’è un tir di traverso a tappare un accesso, un autobus di linea a bloccarne un altro. Due uomini portano a spalla un armadio enorme per alzare un’altra barricata. Scene di guerra in quello che era il Parco Nazionale del Vesuvio, ora ribattezzato da un cartello issato dai manifestanti “Parco della munnezza”. Le notizie corrono, a Terzigno hanno occupato il Comune e sono saliti sui tetti. E si occupa anche il comune di Boscoreale, la gente entra nella stanza del sindaco e butta tutto in aria. Carte e mobili. In giro non ci sono poliziotti, i reparti della Mobile e dei carabinieri sono tutti alla rotonda Panorama, a pochi passi dalle due discariche che ammorbano la vita dei “vesuviani”.

E’ qui che nella notte tra lunedì e martedì e all’alba di ieri sono volate manganellate, ci sono stati fermi e arresti, donne picchiate, poliziotti feriti, camion dati alle fiamme. Nella piazza di Boscoreale, un uomo grosso come un armadio traccia il bilancio dell’intifada vesuviana. “Guagliù quante mazzate, tre guardie abbiamo mandato all’ospedale, ma cinque di noi sono stati arrestati”. Risultato: alle nove del mattino via Zabatta la strada che porta alla discarica Sari di Terzigno è una lunga teoria di autocompattatori fermi. Colmi di rifiuti e in attesa. Trentotto passano, altri trenta aspettano. Sulla rotonda diventata il quartier generale della rivolta, e sulle strade che portano alle discariche la tragedia infinita di questa terra. I poliziotti da una parte in assetto da guerra, gli scudi, i lacrimogeni e i manganelli, dall’altra Aniello Matrone. Di mestiere contadino. Disperato. Si avvicina al plotone con in mano un cesto di mele. Sono brutte, deformi, il colore è quello del marcio. “Ce stanno accerenno, ci ammazzano, guardate queste mele so na chiavica. Nessuno le compra più la terra è morta”.

E Lucia, Maria, Sonia, Deborah. Donne giovani e anziane, casalinghe e insegnanti. “Noi abbiamo avvicinato poliziotti e carabinieri con i rosari in mano e pregando la Madonna, loro ci hanno picchiato. Una donna anziana è stata sollevata di peso, si era stesa a terra per non far passare i camion”. Brava gente, esasperata, impaurita, abbandonata da ogni autorità e dalla politica, che nella Campania dell’eterna emergenza non ha più né parole, né programmi credibili. Ma anche malacarne. Come quelli che prendono servizio di notte, quando arrivano i compattatori, e si muovono agilmente sulle moto, si coprono il volto e attaccano i camion. Li incendiano. “E’ guerriglia urbana”, ha tuonato il questore Sante Giuffré. “Qui c’è una organizzazione che gestisce i tempi e le fasi militari degli attacchi alle forze dell’ordine”. Il clima è tesissimo, può succedere di tutto. Mentre le istituzioni giocano allo scaricabarile. “Per fermare tutto bisogna dire parole nette e chiare – dice Tommaso Sodano, consigliere provinciale di Rifondazione comunista ed ex senatore -, affermare che la seconda discarica nel Parco del Vesuvio non si farà”. Nessuno lo dice. Luigi Cesaro, deputato e presidente della Provincia, balbetta, parla di tavoli istituzionali, e chiede tempo prima di accollarsi tutta intera la gestione del ciclo dei rifiuti. Il Presidente della Regione, Stefano Caldoro, ieri ha emesso un decreto che autorizza il conferimento dei rifiuti nelle discariche di Savignano Irpino (Avellino), Sant’Arcangelo Trimonte (Benevento) e San Tammaro Caserta. Lo hanno sommerso di no. “Quella di Caldoro è una decisione di straordinaria gravità. Così si uccide la nostra agricoltura”, ha tuonato un assessore provinciale di Benevento.

E un no forte arriva anche da Caserta. “Qui siamo già piena di monnezza e per due terzi è monnezza made in Naples”. Tutto fermo, come due-tre anni fa, quando Napoli e l’intera Campania erano una lunga teoria di cumuli di rifiuti. A Napoli ci sono 850 tonnellate di monnezza per strada, altre 600 fermentano sui compattatori. “La situazione è da allarme sanitario. Qui se non ci dicono dove portare i rifiuti precipita tutto”, è il bilancio amaro dell’assessore all’Igiene del Comune Paolo Giacomelli. Il miracolo della monnezza di Berlusconi e Bertolaso era una monnezza di miracolo, come dicono da questa parti. E basta arrampicarsi col ferroviere Luigi proprio sopra la discarica Sari di Terzigno, per rendersene conto. La puzza è tremenda. Il sospetto che qui vengano scaricati rifiuti senza troppe attenzioni è concreto quando vedi scendere un vero fiume di percolato (il liquido prodotto dalla fermentazione della monnezza) lungo la strada. Una scia nera, verde, giallastra, malata. Ma basta farsi ancora due conti per comprendere come, ancora una volta dopo 15 anni di commissariamento, scandali, arresti, camorre e 1,2 miliardi di debiti accumulati, Regione, Province e Comuni (Bertolaso, ormai, se ne è lavato le mani, per lui l’emergenza è finita) ricorrano solo a toppe. Le discariche? Sono buchi pieni ed esauriti. Terzigno nei primi mesi del 2011 sarà colma. Savignano Irpino (capacità 700mila tonnellate) fra 4 mesi sarà satura. San Tammaro (Caserta) ha ancora 5 mesi di vita, poi basta. E bruciare i rifiuti nell’unico inceneritori, sui quattro previsti, quello di Acerra, è un sogno. Perché dei tre forni fino a pochi mesi fa ne funzionava solo uno, da pochi giorni ne è stato attivato un secondo. “Con il rischio – calcola Tommaso Sodano – che l’impianto si stressi e salti di nuovo”. Morale: ad Acerra dovevano essere bruciate 2mila tonnellate di rifiuti al giorno, siamo molto al di sotto. La struttura, a detta di tecnici ed esperti indipendenti, non va: in 18 mesi ha sforato per ben 250 volte i limiti di emissione delle polveri sottili.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 20 ottobre 2010)