I vescovi ai boss: la Madonna non è cosa vostra

“In questo santuario si è consumata l’espressione più terribile della profanazione del sacro ed è stato fatto l’insulto più violento alla nostra fede e alla tradizione religiosa dei nostri padri”. Quando monsignor Fiorini-Morosini pronuncia queste parole la chiesa dove si venera la Madonna di Polsi si fa muta. E’ il 2 settembre, il giorno della festa più antica per San Luca e i calabresi. Si va sulla montagna, i più devoti a piedi, si dorme una notte intera all’aperto, sotto tende di fortuna, per onorare la Madonna. E’ un sentimento religioso semplice e antico che i capobastone della ‘ndrangheta sporcano da sempre, spesso nell’indifferenza della Chiesa. Per questo il vescovo di Locri-Gerace pronuncia parole dure come la pietra della montagna che sovrasta San Luca. “Non c’è nessun legame tra i credenti e chi usa Polsi e la sua religiosità con l’illusione di poter dare un significato religioso alle loro attività illegali, che nulla hanno da condividere con la nostra fede cristiana”. Il monsignore parla con fermezza si rivolge agli uomini della ‘ndrangheta, a quella “mala pianta” che ha avvelenato mortalmente la Calabria e i calabresi.

“Non c’è alcuna cosa che ci lega, cari fratelli che avete scelto la strada dell’illegalità per costruirvi la vita, le vostre ricchezze, il vostro potere e il vostro onore. I nostri cammini non si congiungono a Polsi, semmai si dividono ancora di più”. Parole che alle orecchie dei boss sono suonate come blasfeme. E’ un gesto di rottura quello della Chiesa (che ieri Avvenire, il quotidiano della Cei, ha ripreso a tutta pagina), è la sottrazione di un “valore”, quello della fede e della religiosità popolare, sul quale la mafia calabrese ha puntato da sempre. Nella processione di quest’anno a Polsi non si sono visti boss. Troppi “sbirri”, troppi occhi indiscreti (giornalisti e una troupe della tv tedesca). “Quest’anno alla Madonna di Polsi ci state facendo fare una mala festa, noi veniamo qua solo per pregare e voi ci attaccate tutti”. Così si lamentava un picciotto con un carabiniere. L’anno scorso, invece, i boss al Santuario ci andarono e si riunirono. “In cerchio e sotto la statua della Madonna”. C’erano tutti i capi dei mandamenti della “Tirrenica” e della “Jonica” a celebrare il “Capocrimine”, Domenico Oppedisano, un ottantenne di Rosarno scelto dalle famiglie di ‘ndrangheta come capo del vertice dell’organizzazione. “Un prestanome, una carica onorifica”, sottolineano gli stessi magistrati dell’operazione “Crimine” che nei mesi passati ha assestato un duro colpo alla mafia calabrese e alle sue propaggini in Lombardia. “Ci siamo raccolti a livello nazionale – si raccontano i boss mentre parlano sotto una quercia a pochi passi dal Santuario – eravamo più di mille persone quella notte sulla montagna”. La montagna è l’Aspromonte con le sue gole i gli anfratti impenetrabili, qui, durante la lunga stagione dei sequestri di persona, venivano tenuti gli ostaggi prelevati al Nord.

Il pellegrinaggio di inizio settembre a Polsi è un misto di religiosità popolare e violenza. Dal sangue della capre scannate che arrossa i torrenti agli spari dei fucili in onore della Madonna. Che Corrado Alvaro, il grande scrittore nato a San Luca, descrive così: “Al terzo giorno di settembre si fa la processione e si tira fuori il simulacro portatile…tra lo sparo dei fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità viva tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti a un’armonia più alta della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si stracciano il viso e non riescono neppure a piangere”. Si va al Santuario e anche i mafiosi chiedono perdono alla Madonna. A modo loro, però. “Siate per noi quest’ultima montagna, giacché se per lo passato fummo delinquenti, cordialmente proponiamo di osservare nel tratto successivo la santa legge dell’eterno”. E’ un antico canto di preghiera raccolto dall’antropologa Annabella Rossi, che rende bene l’idea. I pochi pentiti di ‘ndrangheta raccontano come il Santuario di Polsi sia il luogo scelto dai boss per i loro summit. Giacomo Lauro: “A Polsi partecipano tutti i rappresentanti dei locali attivi”. Il “locale” è l’organizzazione delle ‘ndrine nei vari paesi e città. Francesco Foti nel 1999 fornisce un racconto più dettagliato della riunione annuale di Polsi: “Nei primi giorni di settembre tutti i componenti dei locali venivano convocati dalla società di cui facevano parte per discutere e per stabilire influenze, per ristabilire controlli territoriali, per concordare spostamenti su altre città, per i traffici illeciti tra i quali la droga”. Anche gli omicidi si decidevano all’ombra della statua della Madonna. “A queste riunioni – disse anni fa alla Comissione antimafia il procuratore Vincenzo Macrì – partecipano i rappresentanti dei locali calabresi, ma anche quelli della Lombardia, del Piemonte, nonché i rappresentanti della ‘ndrangheta residenti fuori Italia: arrivano dall’Australia, dal Canada e da ogni altra parte del mondo”. Come Al Qaeda, anche la ‘ndrangheta calabrese ha bisogno di un forte radicamento territoriale e di una marcata connotazione religiosa. Ma ora che la Chiesa ufficiale con la voce fortissima del vescovo Morosini le ha strappato la maschera della fede, appare il suo vero volto. Quello della violenza, degli omicidi, delle faide e delle stragi, del business mondiale della droga, degli appalti, dei legami oscuri con pezzi dello Stato e con la politica. Il cancro della Calabria e dell’Italia intera.

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 4 settembre 2010