Le mezze vite dei piccoli killer della Stidda


(di Giovanni Marinetti – Farefuturo webmagazine)

«Noi eravamo l’ultima malapianta cresciuta in Sicilia, i pastori di vacche e di pecore diventati assassini. Capaci di ammazzare un innocente per un’occhiata di troppo. Per un niente.
Noi eravamo le nuove leve, i rampanti senza regole della delinquenza organizzata. I picciriddi che uccidevano per cinquecentomila lire al mese. I ragazzini che terrorizzavano ed erano rispettati e temuti da tutti. Noi eravamo come la gramigna, come l’erbatinta che non muore mai.
Noi eravamo la Stidda dei baby killer».

È successo anche questo in Sicilia. E nessuno credeva potesse essere vero: non le madri, non gli sbirri. E nemmeno i malacarne avevano mai osato tanto.
L’inferno diventò d’improvviso più crudele e vero. Il male aveva il volto di ragazzini feroci armati della voglia di essere adulti. Di essere più malacarne dei malacarne.
È successo anche questo in Sicilia. E una città in particolare, Gela, fu davvero inferno che occupa il reale dove le giornate bruciavano al suono di proiettili innocenti e improvvisi.
Un inferno fatto di paura e coprifuoco, di gente incolpevole che sfuggiva a proiettili vaganti e di mafiosi uccisi per strada. Tanto sangue. E il sangue non era quello dei film, sempre liquido e rosso. Il sangue dei morti, dei morti ammazzati, che sfugge dalle teste di uomini finiti con l’ultimo colpo in fronte dopo scurisce. E non rimane liquido, ma diventa grumoso. Cambia forma e non si cancella facilmente. Ricordo di odio che macchia la terra, ferita di un territorio che soffre. E dopo ogni mazzatina, dopo il fuggi fuggi al primo colpo d’arma da fuoco, la gente ritorna sul luogo a guardare il morto, tra curiosità e cinismo. E i bambini lì, in prima fila imparano quella lezione che è domanda che si fissa nel cuore, e che ritorna sempre in chi è siciliano: è anche questa la mia gente?

È la storia della Stidda, la stella. È una storia vera raccontata da Giuseppe Ardica nel libro Baby killer. Storia dei ragazzi killer di Gela (Marsilio, 141 pagine, 13 euro), un romanzo che nasce dalle carte, dalle parole dei pentiti, dagli atti dei processi. È la storia di un’altra mafia, la Stidda, che arruola il suo esercito tra ragazzini di 13, 14 anni. Una mafia veloce e crudele, che dichiara guerra a Cosa Nostra. «La cosca degli esclusi, degli uomini tenuti ai margini: lontani dalla droga, dagli appalti, dalle estorsioni. Eravamo – racconta un suo esponente nel libro di Ardica – tutti giovani e giovanissimi. Tra di noi c’era pure chi sniffava. Tutti o quasi pastori ed ex guardiani di pecore, spacciatori di eroina, bari nelle bische che noi stessi avevamo messo in piedi per i signori e le signore annoiati dell’alta società. Eravamo decisi a farci largo: anche col sangue se fosse stato necessario. (…) Le regole le prendemmo in prestito dalle cosche della Stidda che erano già nate in tutte le province siciliane, esclusa Palermo. L’unica zona dove Cosa Nostra esercitava ancora il potere assoluto, chiudendo gli spazi alle teste più calde con le revolverate e i bidoni pieni di acido cloridrico. (…) Le promozioni, all’interno del nostro clan, sarebbero avvenute non per appartenenza familiare, ma per meriti acquisiti sul campo: per numeri di morti ammazzati e per i taglieggiamenti agli imprenditori andati a buon fine.

(…) Alcuni degli uomini della nostra associazione si tatuarono la pelle, tra l’indice e il pollice della mano destra: cinque punti blu incisi con la punta di un coltello arroventata al fuoco dei fornelli a gas da campeggio a disposizione dei detenuti». Ragazzini che ammazzano per cinquecentomila lire a morto è cosa che non si vuole leggere. Ma è successo. “Baby killer” è uno strappo alla memoria che ritorna, che la stampa ha dimenticato e ha raccontato poco e male. Solo un nome è vero in tutto il libro, quello di Salvatore Tumeo, ucciso, per uno sgarro, dopo essere stato torturato con una crudeltà che nemmeno il più perverso Tarantino di Pulp Fiction avrebbe potuto immaginare nel suo peggiore incubo. Nomi finti, soprannomi, ‘ngiurie, perché molti di quei ragazzi, all’epoca dei fatti (fine anni ’80 e anni ’90) erano minorenni e oggi sono in parte morti o pentiti.

Mezze vite tormentate dal rimorso di ciò che furono.
L’inferno che ebbe il suo apice di orrore a Gela durante la guerra di mafia fu possibile perché la città era una terra corrotta nell’animo. Tanto distratta da mangiarsi pure i suoi figli a morsi di cane “raggiato”. Una città che ha avuto scatti d’orgoglio ma che ancora oggi rimane “difficile”, costretta com’è a sopravvivere ad altri inferni e con la colpa di una scarsa classe dirigente. E il fuoco dell’inferno, soffiato dalla brezza che giunge dal Mediterraneo, certi giorni brucia più forte.