La trattativa e i pentiti, parla Ingroia
(di Andrea G. Cammarata – Espressioni)
Riccione. E’ ancora il tramonto, siamo alla presentazione del libro “La trattativa” di M. Torrealta, in occasione del “premio Ilaria Alpi”. E’ presente Antonio Ingroia, giudice antimafia, ex-collaboratore di Paolo Borsellino, fa cenni storici ai rapporti fra mafia e Stato, databili agli albori della mafia stessa durante l’unità d’Italia, quando “alla mafia vennero di fatto delegati compiti di ordine pubblico dallo Stato centrale”. Un confronto, quello fra Stato e mafia, esistente dalla nascita dell’onorata società, che più volte nella storia si è ripetuto. Anche gli alleati anglo-americani, dice il dott.Ingroia, “ebbero bisogno del sostegno della mafia durante gli sbarchi in Sicilia”. E’ un confronto reiterato in tutto il trentennio successivo, quando “la mafia ebbe un ruolo di contenimento dei movimenti contadini e sindacali”.
Poi si arriva alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino e ai momenti terroristici della mafia, quando lei, per la prima volta, comincia ad agire fuori dal suo territorio militare.
Ormai una mafia sempre più mutante che la magistratura chiama “il sistema criminale integrato”, poiché a parlare solo di mafia e Cosa nostra, troppo spesso si “evoca ancora il luogo comune di coppola e lupara”, dice il giudice siciliano; concetto troppo lontano da un’evoluzione “fisiologica” con cui la mafia ha poi smesso l’abito del contadino di Riina, per indossare i colletti bianchi della borghesia mafiosa, cooperando con “pezzi di massoneria deviata, pezzi degli ambienti degli apparati di sicurezza, ambienti della destra eversiva”. Ciampi, presidente emerito, in una sua recente intervista a Repubblica -il cui oggetto è stato fra l’altro ritenuto, per così dire, “roba vecchia” dal Capo dello Stato- ha fatto chiaro riferimento all’aria di “golpe” che si respirò fra il ’92 e ’93, un esempio lampante ne è la strage di via dei Georgofili. Una minaccia, un colpo di Stato o un ricatto, spiega Ingroia, “a un’Italia in ginocchio”.
Di fatto la mafia attraverso gli attentati terroristici vuole alzare il prezzo della trattativa e “dimostra di poter scardinare un intero paese”. E’ una trattativa descritta nel papello, cui Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, fornisce copia alle procure. La magistratura deve accertarne ancora la veridicità, ma si parla di alcune richieste come l’abolizione del 41bis e la chiusura delle carceri di massima sicurezza nelle isole. In questa partita, “qualcuno vuole vedere le carte” dice Ingroia, “è noto che ci sono alti ufficiali dei carabinieri, il generale Mario Mori che è accusato di essere uno dei terminali di questa trattativa”. Pur con tutte le dovute cautele, c’è tuttavia un fatto inoppugnabile.
Nel gennaio del ’94 l’attentato dei fratelli Graviano nel piazzale dello stadio Olimpico al pullman dei carabinieri, fallisce per il malfunzionamento del dispositivo che avrebbe fatto scoppiare una macchina carica di tritolo provocando una strage, l’autobomba viene recuperata in attesa di un nuovo tentativo, ma c’è una tregua. Cosa nostra rinuncia a mettere le bombe. Qualcosa succede. Come dice Totò Riina, “si fa la guerra allo Stato per poi fare la pace”, ma chi firma l’armistizio?
I riferimenti vertono tutti, possibilmente, su quei personaggi che colsero il testimone durante il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Gaspare Spatuzza, oggi pentito, ritenuto affidabile, dice che quello stop ci fu, che la trattativa ci fu, e che per la mafia e i Graviano non c’era più bisogno di proseguire la strategia stragista, perché qualcuno aveva mediato: Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, e quello di canale Cinque, Silvio Berlusconi.
Ma in quei giorni gli italiani o la stampa, ironizza Ingroia, si aspettavano che Graviano, mafioso, smentisse le dichiarazioni di Spatuzza, un pentito. Di lì a qualche mese per Graviano finì anche il periodo d’isolamento. E in tutto ciò, prosegue Ingroia, “colpisce la decisione discutibile della Commissione ministeriale di non applicare il programma di protezione proprio a Spatuzza, il collaboratore più importante degli ultimi mesi”, una situazione paradossale per cui altri collaboratori “da quattro soldi” godono della massima protezione. Adesso rimangono pochi dubbi: “o è sbagliata la decisione o è sbagliata la legge”, dice Ingroia. La legge del 2001 sui pentiti è “deleteria, punitiva e ispirata da una pregiudiziale diffidenza nei confronti dello strumento, nonché frutto di una campagna di stampa finalizzata al discredito dei collaboratori di giustizia”. In sostanza è una legge del silenzio, non consente ai pentiti di fare dichiarazioni oltre il sesto mese dall’inizio della collaborazione, pena la perdita di privilegi, quali la protezione dei familiari e il cambiamento delle generalità.
E’ minaccioso tutto ciò, perché pur avendo Spatuzza, in una sua lettera inviata alle tre procure che lo stanno ascoltando, confermato la sua intenzione di collaborare, altri pentiti potrebbero subire l’effetto intimidatorio della legge, rinunciando a parlare, e ciò lo fanno notare autorevoli commentatori. Tuttavia i difensori dell’ex-capomandamento di Brancaccio potranno appellarsi al Tar, impugnando la decisione di una commissione ministeriale, a cui i magistrati che ne fanno parte, all’unanimità hanno votato contro. Non si può sanzionare un pentito che decide di parlare, con una perdita di protezione che equivale alla morte. E Ingroia chiede di avanzare una proposta di riforma della legge “per dare un segnale che la verità si vuole e non si vuole il silenzio sulla stagione delle stragi”.
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