Onna

(Tratto da Il Fatto Quotidiano del 6 aprile 2010)

treeTutto iniziò vedendo un albero. E tutto continua fermandosi ad osservare quello stesso albero. Un anno fa sotto le sue fronde dormivano i morti di Onna. E l’albero diventò insieme simbolo di dolore e di vergogna, di indifferenza per il destino dei vivi e di disprezzo per la cura dei morti.

Onna, 300 abitanti, 40 uccisi dal terremoto del 6 aprile 2009. Il paese spianato da un bombardamento. Le piazze cancellate, le case di pietra sbriciolate. E sotto le vite spezzate di una comunità semplice, ordinata, con i suoi riti secolari. La cura delle case e delle terre, l’amore per la natura e il rispetto per il Gran Sasso, la montagna che gli onnesi guardano per capire l’andamento delle stagioni dal cangiare dei suoi colori. Le parentele e le amicizie, la chiesa dove si sono battezzati i padri e i figli, l’altare dove giovani coppie per generazioni si sono giurate fedeltà eterne. Un paese-frazione diventato suo malgrado il simbolo dell’ultimo terremoto d’Abruzzo.
Ad Onna, il cronista arrivò in paese che erano le otto del mattino. Fu necessario entrare a piedi e superare colline di macerie. Si camminava senza una meta precisa. I soccorsi ancora scarsi. Qualche poliziotto, pochi carabinieri, rarissimi vigili del fuoco. Distrutti dalla fatica e piegati dall’impotenza. Di gru, ambulanze, escavatori, neppure l’ombra.

Passeranno ore, poi la formidabile macchina dei soccorsi mostrerà alle tv la sua tardiva efficienza. Le immagini scorrono come in un film. Nitide ancora oggi. Un vecchio sulle rovine della sua casa, il volto sanguinante. “Mia moglie è là sotto. Aiutatemi”. Una donna abbracciata al marito recita come una nenia la sua disperazione. “Mio figlio ieri non ha dormito a casa nostra, ma dalla nonna. C’erano state scosse forti verso le undici di sera e lui non voleva lasciarla sola. La casa era vecchia. Sono morti tutti e due”.

E Lorenzo Colantonio, un collega della redazione aquilana de Il Centro. Un giornalista da “sentire” ogni volta che si “saliva” da queste parti per una storia da raccontare. Lo si riconosce appena, è tutto impolverato, il volto sconvolto. E’ arrivato a Onna che era ancora buio. “La casa di Giustino è crollata. Sono morti i suoi figli e il padre. Una cosa terribile”. Si ferma, si asciuga le lacrime. Ci sta raccontando della grandissima tragedia che ha sconvolto la vita di Giustino Parisse, capo della redazione aquilana del suo giornale. “Ma tu lo sai cosa mi ha detto? Fai il tuo mestiere, ora io sono dall’altra parte, non ti preoccupare per me”.

Quell’articolo Lorenzo l’ha scritto, è stato il più difficile della sua carriera.
E l’albero. L’albero di Onna. Con i suoi pochi rami e le rade foglie che non ce la fanno a difendere i morti appoggiati sotto, sulla terra nuda. A mala pena coperti da asciugamani, coperte, lenzuola: quello che si è salvato dalle macerie. Non ci sono bare per quelle anime perse. Come i soccorsi, arriveranno dopo ore. L’albero di Onna c’è ancora, circondato da una aiuola e da una lapide che ricorda i morti. In questi giorni di Pasqua è diventato la stazione numero 14 della Via Crucis. Anche le macerie del paese sono ancora lì. Zona rossa.

Onna ora è una fila di ordinate casette di legno costruite dalla Provincia di Trento. Ci sono i giardini, i fiori alle finestre e le sedie sulla veranda per far sedere i vecchi. Gli onnesi non hanno voluto abbandonare la loro terra. Per mesi hanno resistito nelle tende, al freddo e al sole, si sono messi in fila per mangiare, lavarsi, si sono umiliati in insopportabili bagni chimici, per stare lì. “La nostra comunità non si è dispersa e quando inizierà la ricostruzione saremo qui. I nostri occhi guarderanno”.
La ricostruzione. “Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie, e la ricostruzione edilizia per opera dello Stato una calamità assai più penosa del cataclisma natturale”. È la cronaca che Ignazio Silone fece del terremoto che nel 1915 devastò la Marsica. “Dopo il sisma, il territorio del cratere sta perdendo la storia. La storia definita dalle persone con i propri ricordi, relazioni, riti”. Analisi di un intellettuale di oggi, il sociologo aquilano Roberto Lettere.

E basta andare in una delle diciannove new town costruite attorno a l’Aquila, nelle frazioni e nei paesi distanti decine di chilometri, per capire meglio. A Bazzano dove c’era una collina ora ci sono palazzi. Le strade sono in salita. Le case tutte uguali. Moderne, anonime gabbie. Dove anche i balconi sono circondati da grate. Entri nel nuovo quartiere e non c’è vita.
Gli appartamenti sono accoglienti – e ci mancava, visto quanto sono costati, 2700 euro a metro quadro – ma tra quelle vie non ci sono  negozi, scuole, piazze. Un non luogo senza anima. L’11 aprile, a cinque giorni dal sisma, Berlusconi tirò fuori dal suo magico cilindro l’idea delle new town. “Non un ghetto, ma villaggi costruiti con linguaggio architettonico locale, su modello di Milano 2 e Milano 3”. Milano è lontana dalle nuove città, l’Aquila anche di più. “L’Abruzzo aquilano è terra di miracoli – scrive Antonello Ciccozzi, antropologo dell’università cittadina – e, come si sa, i miracoli sono sempre fandonie propagandistiche”. Già la propaganda. Ogni terremoto in Italia è l’occasione per sperimentare  nuovi modelli, economici, sociali e anche politico-istituzionali.
Se la tragedia che trent’anni fa sconvolse Campania e Basilicata fu l’occasione per varare “l’economia della catastrofe”, un connubio tra grandi imprese del nord, camorra e sistemi di potere locali, qual è il modello che si va affermando in Abruzzo? Quello della shock economy, spiega il  professor  Ciccozzi. “Imporre delle scelte come necessità è la chiave di questa strategia usata dal capitalismo dei disastri, e sono dell’idea che Bertolaso, o meglio il sistema postcoloniale di aiuti umanitari che egli rappresenta, non abbia pensato tanto a guarire l’Aquila nel modo migliore possibile per la città, quanto a imporle una cura basata più sulle sue convenienze. Da altero comunicatore quale egli è, il nostro commissario del “fare”: l’emergenza come pretesto per l’abuso di autorità è l’essenza della sua strategia politica”.
Giri per il centro storico della città, ancora uguale a un anno fa, vai a Fossa, Poggio Picenze, Paganica, piccoli gioielli dell’Appennino meridionale con le loro chiese antiche, i vicoli:  tutto cancellato, e capisci che la ricostruzione per l’Abruzzo è un miraggio. E’ poco conveniente, complicata, perché richiede progettualità, cultura, partecipazione delle comunità locali, soldi. Meglio le new town. Quelle si costruiscono subito,  in deroga, senza troppi vincoli. Si inaugurano con i tricolori al vento e le tv che irradiano in tutto il Paese il messaggio del fare. Le macerie possono attendere.