La chiesa è contro la mafia, ma il gesuita Romanin forse non lo sa

Angel standing on money

(Rob Colvin)

Il nuovo corso della Chiesa schierata contro la mafia vale per i sacerdoti in Italia ma non per quelli oramai residenti all’estero. E questo viene da pensare alla luce di quanto sta accadendo al processo Hiram in corso a Palermo, quello sulle connessioni tra mafia e massoneria, una commistione che serviva per arrivare ai giudici della Cassazione o quantomeno ai funzionari di Cassazione per ritardare processi ed esecuzioni di provvedimenti.

Cosa c’entra la chiesa in questo processo? Presto detto. Le indagini condotte dai carabinieri di Trapani pedinando i soggetti indagati, tra questi l’imprenditore mazarese Michele Accomando, ad un certo punto finirono con il concentrarsi presso la sacrestia della chiesa Sant’Ignazio di Loyola di Roma, chiesa dei Gesuiti. I militari pedinando e intercettando i soggetti sotto inchiesta scoprirono che a loro era possibile contattare un sacerdote di quella chiesta, identificato poi in Ferruccio Romanin.
Cosa faceva questo prete? Tra le altre cose scrivere lettere di implorazione, anche nei confronti di giudici, in favore di personaggi nel tempo finiti sotto inchiesta per mafia.

Una di queste lettere riguardava Epifanio Agate, figlio del “padrino” di Mazara, Mariano Agate. Epifanio Agate per un paio di volte è finito in manette, dai processi è uscito assolto, ma tante ombre spesso si sono addensati su di lui, finito intercettato anche a parlare col padre in carcere per portare all’esterno i suoi ordini.

Padre Romanin sentito in istruttoria aveva detto di avere scritto quelle lettere perché indotto a farlo dalle persone da lui incontrate verso le quali nutriva fiducia, ma di fatto ha spiegato di avere scritto senza conoscere i soggetti ai quali si interessava. Spiegazioni deboli, e i gudici del processo in corso a Palermo avrebbero voluto sentirlo, ma quando è partita la citazione a comparire, si è scoperto che in tutta fretta padre Romanin aveva lasciato Roma e dal Vaticano era stato mandato in Australia. Destinazione definitiva questa per decisione dei superiori della Compagni di Gesù.

I giudici allora hanno attivato una rogatoria internazionale, hanno fatto convocare padre Romanin davanti ai giudici australiani, ai loro colleghi di oltreoceano avevano fatto avere le domande da porre, ma avevano avvertito che trattandosi di un soggetto indagato nell’indagine, padre Romanin doveva essere avvertito della facoltà a non rispondere che aveva a disposizione. E il gesuita si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ha offerto solo il silenzio mentre la Conferenza Episcopale Italiana dice che la Chiesa deve parlare contro la mafia.

Padre Ferruccio Romanin ha preferito tenere conto più della veste di indagato che lo ha posto sotto la tutela delle norme garantiste del codice penale e non dell’abito talare che lo pone al di sotto di una Chiesa che sia pure in ritardo ha voluto dire cose che contro la mafia non aveva mai detto, a parte quell’intervento roboante, forte, autorevole fatto da Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, intervento che vide disattenti però tanti uomini di Chiesa. Disattenzioni che ancora oggi esistono in modo pericoloso, Romanin ne può essere un esempio tangibile.