Il Nord e le ’ndrine. Corsi e ricorsi storici
(Tratto da CalabriaOra – di Domenico Logozzo)
Mafia & imprese. Una “società” attiva da oltre 40 anni. Il procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Michele Prestipino, ha svelato in un convegno a Milano i legami esistenti tra i grandi gruppi del Nord e la ‘ndrangheta per gli appalti autostradali. Connubio scellerato, accordi su tangenti, illegalità diffusa. Ebbene, anche questo è un male antico della Calabria in balìa delle forze antisociali da decenni, nonostante tutti i proclami. Un’altra vergogna, che viene da molto lontano, un cancro che divora progressivamente la Calabria e che non si è riusciti a sconfiggere. Bene ha fatto Michele Prestipino, il magistrato che ha arrestato Provenzano e tradotto il codice dei cosiddetti ”pizzini”, a denunciare apertamente le imprese del “3 per cento”.
Ma le “tangenti” erano state condannate e scoperte nel giugno del 1969 dall’allora questore di Reggo Calabria, Emilio Santillo, come si può leggere nel libro “Il Canto della Lupara” del compianto Luigi Malafarina, il più grande conoscitore dell’infausto “universo ‘ndrangheta” del secolo scorso. Rileggiamo quelle pagine “illuminanti”, che testimoniano la lunga e colpevolmente sottovaluta ingerenza mafiosa nei lavori pubblici. Anni di connivenze, che hanno arricchito le cosche e impoverito socialmente ed economicamente una regione succube dell’arroganza delle forze deleterie che hanno costituito l’“anti-Stato”, con una incredibile sfrontatezza, mettendo spesso all’angolo lo Stato. Che non ha evidentemente saputo o voluto reagire.
Siamo nella calda estate del ‘69 quando il questore Santillo, passato alla storia per avere interrotto a Montalto il summit dei mafiosi e per avere fronteggiato la “rivolta per il capoluogo” nei primi anni Settanta, dice amaramente a Luigi Malafarina: «E’ doloroso constatare che alcune imprese appaltatrici dei vari lavori, prima di iniziare le opere si rivolgono agli esponenti delle zone in cui sono ubicati i cantieri, sia per l’assunzione di guardiani che per la stipula dei contratti di subappalto concerti trasporti e forniture di materiale». Santillo andava senza giochi di parole al fondo della questione e affermava che «l’impresa invece di scegliere l’offerta più conveniente e la ditta che offre più garanzie per attrezzatura e capacità tecnica, si affida ai mafiosi, stipulando i contratti con persone che questi segnalano, nella convinzione di assicurarsi, così, la tranquillità nello svolgimento dei lavori, confidando nella “protezione” dei suddetti; e la stessa cosa avviene per la scelta dei guardiani, spesso abusivi e che esercitano la sorveglianza solo di nome e non di fatto».
E a questo punto vien da chiedersi: ma se queste cose si sapevano molto bene fin dagli Anni Sessanta, perché nulla si è fatto per tagliare questo assurdo connubio? Perché ancora oggi si parla di queste “storture”? Perché le parole di Santillo pronunciate tanti e tanti anni fa, non sono state ascoltate? E tutto è continuato come nulla fosse? Tanti interrogativi. Tanti atti d’accusa. E non ci sono alibi: né per i politici e né per le istituzioni che avevano l’obbligo di intervenire. E non l’hanno fatto. Le denunce di Santillo sono tanto attuali, come conferma la dura e decisa presa di posizione del giudice Prestipino, che ha fatto nomi delle imprese che si assoggettano alle imposizioni. Trattano, stringono accordi. L’ha detto in maniera molto chiara il magistrato antimafia. Come chiaro era stato Santillo nel descrivere sempre a Luigi Malafarina le «tre tappe che hanno portato la ‘ndrangheta reggina a contatto con dirigenti di alcune imprese autostradali».
Per capire quello che sta avvenendo oggi, in effetti è importante raccontare quello che si era scoperto ieri. La prima fase si riferiva alla installazione dei cantieri da parte delle imprese, dopo avere ottenuto l’appalto e i lavori: i dirigenti di alcune di queste prima di “allestirli” avrebbero avuto contatti con i “capimafia” delle zone interessate ai lavori, chiedendo “istruzioni” per poter lavorare in pace. «Le forze dell’ordine erano state tenute all’oscuro di tutto», precisa il grande e coraggioso cronista di nera. Si passava poi al secondo atto: l’inizio dei lavori. E’ sempre Malafarina a scoprire che «i soliti dirigenti delle imprese autostradali accettano dai capimafia determinati consigli per assumere guardiani o per concedere a camionisti raccomandati, i lavori di sbancamento delle località dove sarebbero sorti i cantieri».
La terza fase del documentatissimo dossier del giornalista reggino che ha segnato una svolta decisiva nel modo di fare “cronaca nera” in Calabria, senza paura, senza condizionamenti e con onestà intellettuale, porta alla conclusione che (signori, eravamo nel 1969!) «i mafiosi si sono oramai attestati su certe posizioni di privilegio in seno alle imprese; ottengono subappalti e posti di guardiani, ma si devono difendere dall’assalto e dalla concorrenza di altri mafiosi che aspirano, a loro volta, a diventare “imprenditori”». Spargimento di sangue. Feroci regolamenti di conti. E gli accordi “sommersi” vengono alla luce. «Delitti che determinano il massiccio intervento delle forze di polizia, che fino a quel momento erano state all’oscuro di tutto e non avevano ricevuto alcuna denuncia da parte delle imprese appaltatrici dei lavori autostradali in territorio reggino» sottolineava ancora Malafarina, che, per i giovani e i meno giovani “esperti di mafia” resta ancora oggi un pozzo di informazioni attualissime, a tanti anni dalla prematura scomparsa. Segno evidente di una professionalità difficilmente “sostituibile” e chiaro esempio di buon giornalismo d’inchiesta, vecchia scuola, da non abbandonare: andare sempre alla fonte.
Malafarina era la “memoria storica” dell’antimafia. Ricordo un episodio dei primi Anni Settanta, quando ero giovane praticante nella redazione di Reggio del “Giornale di Calabria”, che mi colpì molto e mi diede l’esatta dimensione della competenza, dell’autorevolezza e della serietà del lavoro dell’indimenticabile amico Gigi. Ogni giorno ci vedevamo in questura per l’incontro, alle 12, con il capo della squadra mobile. A Reggio non mancavano le notizie. Il “mattinale” purtroppo non era mai vuoto! Rimasi sorpreso, ripeto, della richiesta fatta a Malafarina, dal capo della squadra mobile. «Gigi – gli disse – dal ministero mi chiedono un rapporto urgente e dettagliato, con le cifre precise sull’andamento della criminalità in provincia di Reggio. I nostri archivi non sono aggiornatissimi. Mi puoi preparare tutto il dossier? La risposta fu immediata: “Certo, entro stasera avrai tutto” ». Capito? Malafarina era la memoria storica, persino l’“archivio” della polizia sulla criminalità organizzata. Era informato, aggiornato, soprattutto credibile. Ecco perché oggi i suoi scritti sono un patrimonio per tutti quanti hanno bisogno di capire la crescita e l’affermazione del “fenomeno mafia”.
Altro che i “professionisti del copia e incolla” che si appropriano di concetti altrui e a volte non si rendono conto minimamente di ciò che effettivamente è stata ed è la sciagurata azione della ‘ndrangheta, sostenuta dall’altrettanto colpevole e – diciamolo pure – spesso connivente sottovalutazione dello Stato, che si è dimostrato troppo debole, ignorando gli appelli e i ripetuti allarmi dei difensori della legalità. Il vecchio libro di Malafarina, edito da Parallelo 38-Reggio Calabria nel 1977, ripetiamo, è un pozzo di notizie. Riporta i nomi di alcune imprese che avevano incontrato “difficoltà” nell’esecuzione dei lavori: la Tor di Valle, la Ldb, la Fratelli Giovannetti, la Moviter, e la Condotte Acqua, citata da Prestipino qualche giorno fa in occasione del suo intervento- denuncia su imprese e ‘ndrangheta. Riportiamo quello che Malafarina scrisse oltre 30 anni fa sulla “Condotte d’Acqua”: «Inizia i lavori nel novembre del 1966. L’importo è di sei miliardi e cinquecento milioni e prevede la costruzione del 4° lotto del 7° tronco da Bagnara a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Impegnati circa 300 operai, di cui 123 forestieri. Fatti dolosi: il 2 dicembre 1967 viene danneggiata con una carica esplosiva l’autovettura del geometra Aldo Barragatti. Tempestive indagini da parte della squadra mobile e dei carabinieri di Bagnara. Tra i denunciati: Saverio Luppino, diffidato di Ps, Carmelo De Maio e Carmelo Forgione. Il 10 aprile 1967 Carmelo Arfuso uccide Francesco Olivieri per il predominio nel settore degli autotrasporti. I carabinieri, nel mese di settembre, arrestano l’Arfuso, condannato poi ad una lunga pena detentiva. Il 25 maggio 1968 l’impresa denuncia ai carabinieri di Bagnara ammanchi di materiale. Quale autore dei furti viene denunciato un manovale. Viene notata, nei cantieri della ditta, la presenza di un sorvegliato speciale, Armando Sbordone, che cerca di farsi assumere, come guardiano.
Lo Sbordone viene sottoposto alla misura del soggiorno obbligato per un triennio. Alle dipendenze della ditta ci sono alcuni sorvegliati speciali ed un ex sorvegliato speciale della Ps». Per comprendere ancor di più gli inizi delle “infiltrazioni mafiose” denunciate oggi con grande determinazione anche dal giudice Prestipino, basta ricordare ancora un altro fatto sconcertante scoperto dalle forze dell’ordine. Protagonisti i mafiosi che in quegli anni erano riusciti ad «accattivarsi la simpatia di alcune imprese». Pensate: un pregiudicato proposto per il soggiorno obbligato, aveva avuto come “avvocato” difensore proprio il dirigente di una ditta che gli aveva rilasciato un attestato, da esibire ai giudici, nel quale si sosteneva che l’uomo colpito dalla proposta della misura di Ps aveva un contratto di subappalto con la ditta per il trasporto di materiale inerte e che era puntuale nelle consegne, zelante e dava all’impresa il massimo affidamento. Il pregiudicato – scrive Malafarina – nonostante il certificato di benemerenza, è finito lo stesso al soggiorno obbligato, sostituito nei lavori di subappalto, da un congiunto. Anche il Parlamento, con una interrogazione degli onorevoli Greggi, Tozzi Condividi e Boldrini, in quegli anni si era occupato delle infiltrazioni mafiose che «impedivano la conclusione dei lavori dell’autostrada». La risposta dei responsabili delle varie imprese?
È stupefacente, anche alla luce di “fatti” di oggi. Scrive Malafarina: «Le cause del ritardo nella ultimazione dei lavori – avrebbero detto i responsabili delle varie imprese appaltatrici al questore di Reggio Santillo e al comandante provinciale dei carabinieri Puglisi – sono di natura esclusivamente tecnica e sono da collegare alla particolare composizione geologica della zona. La mafia non c’entra proprio per niente in tutto questo». Signori, la mafia dell’autostrada negli Anni Sessanta non esisteva, secondo gli imprenditori! Ed oggi chi è che paralizza e condiziona l’attività delle imprese? Sarebbe interessante avere un «pronunciamento pubblico ed ufficiale da chi ha competenze e responsabilità specifiche», per capire se effettivamente il coraggio della giustizia può sconfiggere l’omertà e la paura! E soprattutto per dare concretezza all’azione dei giudici, dei poliziotti e degli uomini giusti e onesti che mettono a repentaglio la loro incolumità per creare condizioni di vita migliori ad una regione offesa e umiliata dalle forze antisociali.