Le bare di nessuno, il cimitero con i loculi aperti

(Tratto da il Fatto Quotidiano – di Beatrice Borromeo e Silvia Truzzi)

L’Aquila. I pini sono rimasti in piedi. Disposti ai lati di un vialetto nel cimitero di Casentino – una manciata di chilometri da L’Aquila – portano a una cappella che adesso è piena solo di insetti. Si arriva da una strada sterrata, fango e buche a ogni metro. Un tempo deve essere stato un posto di pace: spesso succede nei cimiteri di campagna, più serenità che assenza. Quel che è rimasto uguale è il silenzio: però non è solenne, solo desolato. E il pericolo: ieri un’altra scossa, magnitudo 2.4, si è sentita in Abruzzo. Dal finestrino sfilano abbandono e pezzi di edifici un tempo intatti. All’entrata del cimitero c’è un mare di macerie, tutte scostate da una parte. L’ingresso è libero.

L’odore. La prima cosa che ti assale è l’odore. Più ci si avvicina alle bare, più è forte. E accompagna chi cammina con la sensazione di essere entrati in un luogo infetto. Eppure si vede che qualcuno qui ci viene ancora, per salutare chi non c’è più. In ogni senso, perché molti morti mancano all’appello: poche tombe sono intatte. Tante sono quasi completamente distrutte, divelte, solo le più nuove non mostrano danni evidenti.

Ci sono strutture puntellate con le assi di legno: qualcuno è venuto. Ma nelle stesse cappelle messe in sicurezza i loculi sono aperti e le bare rotte. Di certo sono state viste e nonostante questo sono rimaste lì. Lumini e fiori di plastica sono volati dappertutto. Rami, marmo in briciole, vasi di terracotta. In alcune tombe restano grandi buchi senza memoria che non sono più la casa di nessuno.

Le lapidi sono crollate a terra nelle cappelle e anche nelle sepolture comuni. Lastre di marmo con nomi e foto seppiate rotte a metà, capovolte e sbrecciate dalle scosse, sono appoggiate senza delicatezza ai muri che hanno resistito al terremoto. La famiglia Cecchini ha lasciato un ricordo sul cemento che chiude una bara: “Papà ti vogliamo bene”. Poco, ma meglio di niente.

Qualche metro più in là una cappella d’angolo non ha più la porta. Si entra senza chiedere permesso in quel che rimane: qui riposano i morti della famiglia Lolli. Due tombe intatte, attorno calcinacci e quell’odore fortissimo che passa dalle narici allo stomaco in un attimo. Il tempo di portare una mano a proteggere il naso. Ci sono due casse bianche e piccolissime sistemate in basso. Alzando lo sguardo, tra le pietre rotte, se ne vedono due più grandi. Stanno lì all’aperto come tutte le altre macerie di questo terremoto. Non c’è nemmeno una transenna ad avvertire, nemmeno un nastro di plastica. Sabato prossimo saranno passati undici mesi, ma sembra tutto ancora urgente.

Dopo l’emergenza. È la parola che ricorre più spesso nei discorsi degli aquilani, anche se la Protezione civile ha lasciato la città. Cosa c’è dopo l’allarme? La necessità di ricominciare. Il bisogno non meno forte di ritrovare la città nelle sue declinazioni – circoli, bar, ristoranti, piazze – oltre i confini delle macerie. E cimiteri, dove consumare il rito del ricordo e dei saluti. Dove stare? è un interrogativo fondamentale, soprattutto se non ci sono, per molti, più case che si possano definire tali.
Ma solo “moduli abitativi”, camper o monolocali da dividere. Anna lo spiega bene, mentre guarda i cumuli di macerie in piazza Palazzo, nella domenica delle carriole. “Noi non siamo disperati. Siamo molto lucidi. Rimuovere le macerie è fondamentale, perché solo così riavremo il nostro centro. Dobbiamo riappropriarci delle strade dove ci siamo dati appuntamento per una vita. Prima, quando c’era la Protezione civile, non si poteva fare niente. Ritrovarsi, discutere, parlare era difficile. Eravamo sottomessi”. E continua: “Era vietato riunirsi in assemblea, consumare alcolici, persino volantinare. Vivevamo un vero Stato di polizia, e ora che siamo liberi dall’oppressione possiamo finalmente incontrarci”.

La vita sociale. “Capo piazza e Pie di piazza sono i luoghi degli appuntamenti”, racconta Marta che guida il corteo delle carriole mentre, sventolando una foto, mostra dov’era – “anzi dov’è” – la sua casa. “Ci davamo appuntamento in quei posti – racconta – e oggi non lo possiamo più fare. La nostra vita di relazione, il nostro cuore, era in queste strade, tra la biblioteca, la chiesa e il cinema. Noi non ci vediamo più, ormai ci sentiamo soltanto per telefono”.
Alcuni degli sfollati hanno avuto la fortuna di trasferirsi nelle case della new town, le abitazioni prefabbricate e antisismiche che Silvio Berlusconi ha consegnato a una piccola parte dei cittadini lo scorso 29 settembre. “Almeno abbiamo un tetto”, dicono grati. Però i mesi passano e gli inquilini sanno bene che non rivedranno le proprie case presto. “So che per i prossimi 5 o 6 anni vivrò qui”, spiega Federico che abita con la sua nonna 81enne in una monocamera.

E lo conferma, ieri, anche il capo della protezione Civile Guido Bertolaso: “Ci siamo occupati della prima fase ma il cammino è ancora lungo”. Intanto gli aquilani si arrangiano: “Mia nonna senza di me non può stare – spiega Federico – perchè per raggiungere la farmacia o il supermercato c’è bisogno della macchina, e lei non guida più”. A L’Aquila chi ha bisogno d’aiuto o non vuole stare solo può contare sulla sua famiglia.

Gabriele Fiorenza, pensionato e fortunatamente nonno “così ho qualcosa da fare durante il giorno”, alla manifestazione ci è venuto con un cartello che dice: mangio, dormo, ma non vivo. “Io sono laureato in Fisica – dice Gabriele – so di cosa parlo. Noi il terremoto lo aspettavamo. Lo sapevamo che sarebbe venuto: la Commissione Grandi rischi è moralmente responsabile”.
Il bisogno di normalità è nelle parole di una ragazzina di quattordici anni che scoppia in lacrime perché “non si può passare il resto dell’adolescenza in un centro commerciale”. Si chiama “Aquilone” ed è diventato il punto di ritrovo dei giovani che vivono nelle case di Bazzano e dintorni: un complesso grigio e triste sul ciglio della strada, luci artificiali e negozi. Niente più portici dove passeggiare il sabato pomeriggio.

E più che per svuotare la città dalle macerie, gesto simbolico perché l’Italia ricordi che nessuno agisce e gli aquilani sono soli, la manifestazione di domenica sembra nata per stare insieme.