Alvaro e gli immigrati

Volti di immigrati a Rosarno (Ansa)

Volti di immigrati a Rosarno (Ansa)

(Da da Calabria Ora – di Domenico Logozzo)

«Un dramma dei poveri in Calabria. La ricerca della fortuna con le terre nuove e l’emigrazione. Poi del semplice pane, con le guerre. Il potere, la fantasia dei semplici sul potere. Senso della necessità stretta che nessuno è mai riuscito a descrivere». Così nel 1941 Corrado Alvaro in “Quasi una vita”, fotografava con la sua straordinaria scrittura, la “vita dura” dei calabresi, quando «per mutar condizione non v’era altro mezzo che l’emigrazione,cioè l’adattamento dell’uomo ad altro lavoro e ad altra vita». Dopo i recenti fatti di Rosarno ci debbono far riflettere queste illuminate ed oneste pennellate di verità e ci fanno capire quanta saggezza, sofferenza ed umanità ci hanno lasciato in eredità, con il loro corretto e modesto esempio, i nostri nonni.

E’ un ricordo delle radici che idealmente diventa un appello alla Calabria d’oggi e a chi oggi ha trovato qui ospitalità umana e civile accoglienza. Un vero e proprio “appello ai valori” che ci viene dal lontano passato da uomini buoni e giusti,
che hanno lavorato per affermare la cultura della convivenza solidale. Oltre l’odio e le barriere di razza e di colore.

Ma non scordiamoci quanto hanno sofferto i nostri emigranti all’estero e anche nel Nord dell’Italia, per superare i pregiudizi e affermare con intelligenza le loro straordinarie capacità contro l’emarginazione e il marchio infamante di «meridionali violenti e mafiosi». In questi giorni, purtroppo, sono state brutalmente violate le più elementari regole di coesistenza civile, con episodi terribili, che hanno riportato nuovamente sulle prime pagine di tutti i giornali e nei titoli di testa dei telegiornali, non solo nazionali, la Calabria e la martoriata Piana di Gioia Tauro. Rispuntano inquietanti interrogativi sull’influenza della mafia, ne viene fuori ancora una volta il torbido intreccio di soprusi e illegalità che da decenni infesta la regione italiana più periferica, non solo geograficamente.

La regione dell’accoglienza (che bell’esempio Riace: ha riempito d’orgoglio tutti i calabresi questo prezioso lembo di solidarietà che l’altra sera i telegiornali hanno mostrato a tutto il mondo), non può essere trasformata nella terra dello sfruttamento bestiale, accusata di essere “xenofoba” e a Rosarno la gente «non accetta di essere macchiata con accuse di razzismo» e afferma che «singoli episodi imbevuti di ignoranza e immaturità non possono etichettare un territorio». Difesa legittima. Ma è soprattutto lo Stato che deve tutelare questo territorio, con una presenza reale e costante. Bene i rinforzi.
Giusta la sensibilità e la fermezza dimostrata in questi giorni. Ma prima? Non è ammissibile che centinaia di disperati siano stati costretti a vivere e lavorare in condizioni di una disumanità intollerabile, senza che nessun intervento concreto sia stato messo in atto per impedire che si arrivasse alla devastante “rivolta”. Violenze, spari e feriti. L’ombra della mafia sempre più minacciosa. L’agricoltura continua ad essere un “affare”, anzi “malaffare”, come ben 30 anni fa aveva denunciato con coraggio Peppino Valarioti, il sindacalista e segretario del Pci di Rosarno, ucciso la notte dell’11 giugno 1980, mentre stava festeggiando la vittoria elettorale. Si era preoccupato di fare luce su affari sporchi e malapolitica in una delle prime esperienze associazionistiche nel settore della produzione e della trasformazione agrumicola sorte proprio a Rosarno. Il piombo assassino fermò la sua azione. Ricordo con lucidità e commozione la notte in cui ricevetti la notizia al “Giornale di Calabria”, dal nostro corrispondente.
Rimasi sconvolto e preoccupato per la gravità di una eliminazione politica così eccellente. Ero il capo redattore, mi trovavo in tipografia e avevo appena “chiuso” la prima pagina, con tutti i risultati delle elezioni in Calabria. Il titolo a nove colonne era puntato sull’esito del voto. E come ogni notte, stavo aspettando l’uscita dalla rotativa della prima copia della prima edizione del giornale che era quella della provincia di Reggio Calabria. Bloccai immediatamente la rotativa. Smontai la prima pagina ed il titolo principale, a nove colonne, divenne quello sul delitto Valarioti. Fummo gli unici a dare quella mattina la notizia.

Il giornale subito esaurito. Tempestati di telefonate dai distributori e dai rivenditori, fui costretto a richiamare in servizio i tipografi per mettere nuovamente in moto la rotativa. Questo mi confermò da subito che si trattava di una vicenda sconvolgente per la vita politica del Reggino e dell’intera Calabria. Un caso che a trenta anni di distanza resta ancora irrisolto, immerso nelle assurde nebbie dei tanti misteri calabresi. E a trenta anni dalla morte sarebbe più che opportuno riaprire un serio confronto sul ruolo dei politici, dei sindacalisti, degli amministratori e dello Stato nel “controllo” del lavoro nero e sugli utili che i “padroni” riescono a ottenere sulla pelle degli sfruttati, malpagati, diseredati. Sarebbe il modo migliore, al di là delle “consuete” celebrazioni, per dare forza alle battaglie di onestà e civiltà della Calabria dei buoni e dei giusti.
Peppino Valarioti mi è tornato alla mente proprio mentre leggevo le prime cronache e vedevo in televisione le drammatiche immagini della “rivolta” di Rosarno.
La sua eliminazione, ho pensato, ha portato anche a questo inferno, il far west dello sfruttamento nei campi della povera gente da parte di persone senza cuore. Le violenze, le aggressioni, le spedizioni punitive, la delusione, la rabbia, la denuncia: «Abbiamo vissuto vessazioni indicibili e rapporti difficili con la popolazione». Sfruttati e sfruttatori che hanno gettato nel caos una intera comunità. Poveri cristi, persone perbene che si sono trovati gli uni contro gli altri .Una assurda guerra che riporta in primo piano il tema della povertà.

E anche in questo caso ritorniamo a Corrado Alvaro e riflettiamo su un suo pensiero di 73 anni fa: «Bisogna modificare il concetto di povertà nel mondo moderno .C’è una povertà interiore irrimediabile».