A ‘Ndrangheta per il racket parla indiano. Ecco come le cosche fanno entrare (regolarmente) gli immigrati
(Tratto da Byte Liberi – 2 febbraio 2010)
Quando a Singh chiedono come vive in Italia, lui risponde beffardo. “Bene, da gran signore. Il mio lavoro principale è quello dei documenti, ormai mi sono abituato a guadagnare di più, con gli altri lavori si può solo mangiare”. E guadagnava cifre da capogiro Singh Sher con “i documenti”. I visti falsi che lui e i suoi uomini procuravano ai loro connazionali per sbarcare finalmente in Italia.
In Calabria Sher aveva capito come funziona: non ti muovi se non ti allei con la ‘Ndrangheta, con i Iamonte di Melito Porto Salvo, e i Cordì, le due cosche entrate nel business dell’immigrazione. Con loro Sher aveva costruito una organizzazione perfetta. Non erano scafisti, gli immigrati non arrivavano sulle coste joniche a bordo di barconi. Quella è roba buona per gli africani o per gli albanesi di una volta. No, gli indiani partivano direttamente da Nuova Delhi, in aereo, con regolari passaporti e regolarissimi permessi di soggiorno.
C’erano i datori di lavoro che stipulavano contratti fittizi, sindacalisti e mediatori culturali compiacenti, funzionari di Asl e dell’Ispettorato del lavoro ai quali veniva chiesto di chiudere un occhio e loro, volentieri, li chiudevano tutti e due, funzionari di consolati e complici negli aeroporti indiani. Bastava pagare, c’era un tariffario preciso per gli indiani che sognavano l’Europa. Un visto per sei mesi costava 9 lak, 15 mila euro, per 11 mesi da 18 a 25 mila.
Il business è durato anni e ha fruttato all’organizzazione calabro-indiana 6 milioni di euro. Con i Iamonte e i referenti dei Cordì, Singh Sher trattava alla pari. “Movimenta notevolissime somme di danaro, lui è il capo di tutta l’organizzazione, nel senso che lui è un soggetto trainante di queste cose”, dichiara ai magistrati della Direzione antimafia di Reggio Calabria, Saverio Foti. Foti è un imprenditore agricolo di Melito Porto Salvo, i Iamonte vogliono accaparrarsi la sua azienda, lo riducono sul lastrico, fino a quando riescono a coinvolgerlo nel business dei contratti di lavoro falsi.
Singh Sher ha un fortissimo ascendente sugli indiani, nelle telefonate lo appellano “Virk”, un vero e proprio blasone, in questo modo in India ci si rivolge a coloro che appartengono al jet-clan, la classe superiore. Il suo è un clan potentissimo, in India controlla, sia politicamente sia economicamente, intere città, ma è presente anche in Pakistan, negli Stati Uniti. In Italia il “trafficante di indiani” ha stabilito ottimi rapporti anche con pezzi delle istituzioni. “Tu puoi fare tutto, puoi anche comprare la Prefettura”, gli dice ammirato un suo complice.
All’organizzazione collaboravano “pubblici funzionari italiani – scrivono i magistrati dell’antimafia reggina – collocati strategicamente negli uffici amministrativi (Prefettura e Direzione del lavoro) o in organizzazioni sindacali”. Un meccanismo raffinato, ma anche spietato. Per pagare l’organizzazione, i migranti “si indebitano in maniera notevole o vendono tutti i loro beni per far fronte alle ingenti richieste di denaro” degli “scafisti”, i quali molto spesso acquistano direttamente le loro proprietà o i terreni da loro posseduti”.
Il cartello calabro-indiano non si limitava a vendere contratti di lavoro e permessi di soggiorno farlocchi, ma riciclava anche passaporti. Che i migranti indiani ricevevano da un complice direttamente all’aeroporto di Nuova Delhi, senza passare dall’Ufficio visti. “O Sher consegna falsa documentazione a chi sta per imbarcarsi – scrivono i pm – oppure anche i suoi sodali hanno conoscenze all’interno degli uffici consolari”. Un vorticoso giro di soldi che passava attraverso una banca particolare. Singh Sher è infatti un referente del metodo “hawala”, i circuiti bancari clandestini presenti in Africa, America latina e paesi arabi.
Banche parallele dove il danaro circola senza lasciare tracce e senza incorrere nei controlli dell’antiriciclaggio. Ma a guadagnare erano anche gli imprenditori calabresi compiacenti che per danaro si impegnavano a fare richieste di manodopera false. C’è un dato impressionante nell’inchiesta: dal 2007 al 2009 gli indiani assunti in provincia di Reggio Calabria sono 877, 282 di questi hanno lavorato massimo per 3 mesi, il 32% non è arrivato a 10 mesi di lavoro. Per gli indiani la Calabria è terra di passaggio, molti di loro aspirano ad andare in Inghilterra. Anche a questo provvedeva il cartello.